[17/03/2008] Parchi

La tragedia tibetana e il nuovo colonialismo globalizzato

LIVORNO. Nel Tibet blindato dai cinesi si sta svolgendo probabilmente l’ennesimo episodio di una tragedia fatta di colonialismo “progressista” che nasconde la necessità da parte di Pechino di accaparrarsi e difendere risorse naturali indispensabili per sostenere la crescita cinese, ad iniziare dall’acqua dei sempre più ridotti ghiacciai dell’Himalaya che danno vita ai grandi fiumi che dissetano più di un miliardo di cinesi, rendono fertili campagne sempre più inquinate, muovono industrie e forniscono elettricità.

Visto da questo punto di vista, si capisce anche il voltafaccia dell’India che, da protettrice e alleata della diaspora tibetana si sta trasformando nella più zelante collaboratrice dei cinesi nella repressione delle proteste.

Il Tibet, o meglio il Tibet storico che comprende l’attuale provincia autonoma, l’Amdo (Qinghai), dove è nato il Dalai Lama, il Kham (la parte occidentale del Sichuan), piccole parti dello Yunnan e del Gansu, ha una popolazione di circa 6 milioni e mezzo di tibetani ormai sopraffatti da una presenza sempre più massiccia di cinesi di etnia Han che stanno trasformando il volto della regione, anche dal punto di vista ambientale ed antropologico.

Un colonialismo culturale ed economico che traspare senza vergogna addirittura dai proclami degli alti funzionari tibetani ai quali Pechino affida le dichiarazioni ufficiali su quella che assume sempre più gli aspetti di una repressione sanguinosa di tipo birmano.

I burocrati cinesi del Tibet accusano senza mezze misure il Dalai Lama di essere assurdo e menzognero quando accusa la Cina di aver instaurati un «regno del terrore» e di «genocidio culturale».

«Se il gruppo secessionista del Dalai Lama non avesse attentato alla stabilità del Tibet – ha detto il sindaco di Lasha Doje Cezhug – il Tibet avrebbe conosciuto il suo miglior periodo di sviluppo della sua storia. Oggi gli abitanti tibetani conducono una vita moderna godendo dello sviluppo della cultura tradizionale tibetana».

E dal sito internet dell’agenzia ufficiale Xinhua, Legqog, presidente del Comitato permanente dell’assemblea popolare della regione del Tibet, dà una lezione di storia al Dalai Lama: «il concetto di “cittadino” non esisteva nel vecchio Tibet. Sotto il sistema di servitù, i servi non avevano niente ed erano venduti ed acquistati dai loro proprietari».

Esattamente come succedeva in Cina prima della rivoluzione maoista (e succede ancora oggi per migliaia di lavoratori schiavi) ma questo non impedì ai cinesi di ribellarsi contro i colonizzatori giapponesi ed europei che occuparono la Cina per portare quel progresso e rimuovere quell’arretratezza che oggi renderebbe giusta e civile l’occupazione del Tibet manu militari e la cinesizzazione di un territorio con una bassissima densità di popolazione e pieno di risorse.

E’ lo stesso riflesso coloniale che faceva dire ai fascisti italiani che portavano la civiltà alle “faccette nere” aprendo strade in Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia, o magari nel “mandato” cinese, e taceva sul razzismo, il genocidio delle guerre di conquista e la repressione degli feroce dei nazionalisti.

Altrimenti come leggere le parole dell’ineffabile Legqog: «I tibetani non hanno iniziato ad amministrare i loro affari solo dopo l’instaurazione dell’autonomia nel 1965. La cultura tibetana è prosperata, al contrario del preteso “genocidio culturale. Ci sono 161 siti culturali in Tibet, tra i quali 35 sotto protezione di livello nazionale. Abbiamo 1.700 templi sotto buona protezione. I monaci e le masse godono di libertà religiosa».

La realtà è che, anche in seguito alla realizzazione della nuova ferrovia che congiunge il Tibet a Pechino, Lasha è sempre più una città cinese e il buddismo tibetano e la città santa si stanno trasformando in una specie di Disneyland religiosa per cinesi alla ricerca dell’esotico pittoresco, mentre la paccottiglia invade le strade e i tibetani scompaiono dalla città, dalle scuole e non hanno accesso ai posti dirigenziali.

Anche se, come in tutti i regimi coloniali, i collaborazionisti entusiasti non mancano, come Qiangba Puncog, presidente del governo regionale autonomo del Tibet, che mentre la milizia cinese circonda i monasteri e sfonda le porte alla ricerca dei ribelli, dice che «Il Paese ha deciso di investire 570 milioni di yuans dal 2006 al 2010 per rinnovare 10 siti culturali, tra i quali il tempio di Jokhang. Possiamo dire che la cultura tibetana non è mai stata prospera come oggi».

«Dobbiamo amare i progressi difficilmente ottenuti in Tibet» è il messaggio che viene dall’Assemblea popolare nazionale riunita a Pechino. Uno strano amore davvero se per affermarsi perseguita, imprigiona, tortura ed esilia i tibetani ed insulta la loro massima autorità spirituale. Uno stano amore che ora ha anche la patente di non violare poi troppo i diritti umani, concessa inopinatamente di recente ai cinesi anche da George W.Bush.

Mentre la Cina chiude le frontiere del Tibet come ai bei tempi dell’invasione maoista e lancia ultimatum, una cosa è certa, alle olimpiadi di Pechino non sventolerà nessuna bandiera tibetana ad offuscare il trionfo dell’intoccabile Cina e della sua rampante economia globalizzata che sostiene la crescita planetaria, un’attrazione più potente di qualsiasi flebile conato etico ed umanitario delle cancellerie occidentali.

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