[11/03/2008] Aria

Carbone: facciamo pulizia della comunicazione sporca

LIVORNO. Back to black, non è solo l’ultimo disco della cantautrice inglese Amy Winehouse, ma sembra essere anche la nuova strategia energetica del regno unito, come ha dichiarato il segretario di stato per il business del governo Brown, John Hutton.
Così titola infatti anche il quotidiano londinese Indipendent, per annunciare il proposito di puntare nuovamente al carbone per la produzione elettrica, con la costruzione di una nuova generazione di centrali elettriche a carbone, nel mix previsto di rinnovabili e nucleare per soddisfare la propria domanda energetica.

Ma naturalmente per il futuro non si parla di black coal, ma di clean coal, ovvero carbone pulito.

A parte il fatto che parlare di carbone pulito si rischia di incorrere in un ossimoro, quello che ancora non traspare nelle informazioni che si leggono sui quotidiani è il fatto che le tecnologie per rendere pulito il carbone, esistono solo in parte e per il resto sono ancora in atto ricerche e valutazione dei rischi/benefici.

L’espressione "carbone pulito" può avere un senso infatti solo se si parla di confrontare il rendimento e le emissioni di una vecchia centrale con una nuova. Per meglio dire: un impianto di vecchia generazione produce un MWh per ogni quintale di carbone combusto e la combustione di questo quintale di carbone comporta l’emissione di un chilo di carbonio. Oggi, con una nuova tecnologia, con lo stesso quintale di carbone (che combusto corrisponde sempre a un chilo di carbonio) si potrebbero generare due MWh. Quindi si può dire che è aumentato il rendimento energetico (sino al raddoppio), e che è possibile usare in maniera più efficiente la stessa quantità di combustibile ma le emissioni di carbonio sono le stesse. Sempre riguardo alle emissioni, i nuovi sistemi di abbattimento riescono a ridurre gli inquinanti che il carbone produce a valle della sua combustione: biossido di zolfo, ossidi di azoto e particolato fine o nanopolveri. Esistono infatti tecnologie che servono a ridurre parte di queste emissioni, come i desolforatori (efficaci sino al 99%) o i filtri per abbattere gli ossidi di azoto e il particolato dei fumi di scarico, ma non le emissioni radioattive (contenute naturalmente nel carbone a seconda della sua origine) e il particolato fine che invece rimane.

Quello che invece si intende spesso quando si parla di carbone pulito è l’insieme di tecniche che si stanno studiando per sequestrare la anidride carbonica che la combustione del carbone determina.

Si tratta cioè di catturare la Co2 emessa dagli impianti industriali e di immetterla in formazioni geologiche appropriate, come i giacimenti di petrolio e gas naturale, esauriti oppure ancora in uso, le formazioni geologiche porose sature di acqua salata (i cosiddetti acquiferi salini) e i giacimenti carboniferi profondi. La possibilità di immettere C02 negli oceani a grandi profondità, di cui si parlava qualche anno fa è invece un´alternativa già abbandonata per gli effetti che avrebbe potuto produrre l’aumento dell’acidità delle acque sugli ecosistemi marini.

Per avere successo la tecnica di sequestro geologico della Co2 deve soddisfare tre requisiti: ovvero deve essere competitiva in termini di costi rispetto alle attuali alternative per il contenimento dei gas serra, quali le fonti rinnovabili assieme ai miglioramenti di efficienza dei processi di produzione, deve dare garanzia che lo
stoccaggio nel sottosuolo sia stabile anche nel lungo periodo, e deve essere ambientalmente compatibile.

Ma nessuna di questi tre requisiti appare oggi ancora rispettato, per questo è assai velleitario presentare in termini di informazione corretta, questa tecnologia come già acquisita come dichiara anche oggi il responsabile di grandi progetti di Enel, Ennio Fano. Se si escludono infatti alcuni sistemi di stoccaggio a profondità di oltre 800 metri che si stanno utilizzando in Usa per incrementare lo sfruttamento di giacimenti petroliferi o metaniferi, è ancora piuttosto presto per poter dire che la tecnologia esista non solo a livello sperimentale.

Riguardo ai rischi, nel sequestro geologico vi possono essere due tipi di problemi: fuoriuscite di Co2 durante le fasi operative volte alla cattura, trasporto e iniezione nel sottosuolo e rilascio in atmosfera dal sito di stoccaggio. Mentre per la prima problematica i rischi possono essere contenuti adottando adeguate misure di sicurezza (ma il condizionale è d’obbligo) per il comportamento a lungo termine dell’anidride carbonica nei siti di stoccaggio ancora non si è in grado di garantire quali possano essere le conseguenze. E quindi è necessario continuare gli studi e le ricerche in tal senso.

Quanto alla compatibilità ambientale, le esperienze attuali non sembrano essere in grado di poter garantire quali possano essere i problemi a fronte dei vantaggi ottenuti. E ancora una volta non si tiene conto del fatto che anche il carbone è una fonte energetica in via di esaurimento, certamente più diffusa e meno concentrata del petrolio o del gas, ma sempre esauribile. Considerato anche il fatto che la domanda è in fase incrementale, da più parti comincia a serpeggiare il dubbio che la produzione di carbone possa arrivare al picco nei prossimi anni, cioè che potrebbero finire le quote economicamente estraibili ( alle correnti condizioni operative ed economiche) molto prima di quanto previsto. La conseguenza è che il prezzo è destinato a salire.

Pertanto se pare comunque necessario continuare ad effettuare ricerche riguardo alla possibilità di utilizzare il sequestro geologico della Co2 per ridurre la concentrazione attualmente presente in atmosfera, la vera opportunità di garantire il fabbisogno energetico del futuro sembra sempre più venire dalle energie rinnovabili.

Varrà infatti la pena ripercorrere per il carbone, come sta accadendo per il petrolio, l’ascesa stratosferica dei prezzi e le conseguenze che questo avrà sull’economia per affidarsi ad una fonte energetica così problematica?

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