[04/03/2008] Comunicati

Sul "dovere" della sostenibilità

AREZZO. “Lo stato faccia quello che i cittadini non possono fare”. ”Il traguardo della crescita è senza colorazione politica”. Il resto, tutto il resto, sono ubbie conservatrici delle quali prima ce ne sbarazziamo e meglio è! Il decalogo confindustriale si presenta alle elezioni e agli elettori come la vera interpretazione della modernità. Un dibattito elettorale così provinciale e novecentesco è francamente desolante e disarmante.

Ma come, alcune multinazionali americane di fronte al combinato disposto del global marketing e del global warming reclamano regole e governance dichiarando esplicitamente che le regole (e quindi lo stato) deve venire prima a dettare la rotta e non dopo perché altrimenti non ci sarebbe certezza degli investimenti da fare, e le classi dirigenti nostre sono ancora alla stucchevole ottocentesca disputa di meno stato più mercato?

Ma come, Sir. Nicholas Stern ( Vicepresidente della Banca Mondiale, non Vicepresidente del Centro sociale “Assalti frontali”) avverte che se la politica non interviene (lei e prima…) a piegare l’economia verso la sostenibilità, si rischia tutti di segare proprio il ramo della crescita sul quale siamo seduti e il dibattito elettorale (auspice i venti di recessione provenienti dall’america) è tutto sguinzagliato su chi fa (farebbe ) meglio la stessa cosa (ovvero e appunto: crescere)?

Ma come, l’Ipcc ha oramai sfondato il muro degli scettici di professione sugli effetti dei cambiamenti climatici, tanto da ricevere il Nobel insieme ad Al Gore, evidenziando e quantificando i guasti economici prima ancora che ecologici che sono già in atto, e in un passaggio importante come quello elettorale Italiano si continua a non vedere la questione della sostenibilità e a considerare quella ambientale come un orpello?

Ma come, operai e lavoratori manuali continuano a morire come le mosche (non solo in Italia) sotto i colpi di maglio della competitività e della flessibilità, e si pensa all’impresa (ma quale impresa che il 98% di quella italiana, come ci dice l’Istat, è sotto i 10 dipendenti?) come entità astratta entro la quale “datori” e “riceventi” lavoro sarebbero sullo stesso piano e dunque pronti a convergere in un moderno patto fra produttori con l’obiettivo comune della crescita?

Ma come, i fautori della sostenibilità sociale e ambientale invece di mettere al primo posto l’obiettivo di una economia sociale ed ecologica, che pretende (rebbe) un più forte governo politico sotto tutte le latitudini e a tutti i livelli, insistono e cincischiano sul no a questo e no a quello dichiarando così implicitamente una subalternità culturale proprio nei confronti di chi si dicono alternativi? Perché non pretendono di superare immediatamente anche gli stessi strumenti (il Pil) con i quali si pretende di misurare il benessere “ma anche” il malessere, mettendoli sullo stesso piano? Dentro questo paradigma ottto-novecentesco dello sviluppo per quanti sforzi emendativi si facciano si rimane nel recinto del reclamo dei diritti. Sacrosanti diritti intendiamoci, ma un cambio di paradigma si mette in campo solo se alla parola “diritto” si affianca quella di “dovere”.

Questa seconda parola è assolutamente assente in tutti i programmi: eppure è la malattia che impedisce il dispiegarsi di un vero e sano conflitto fra interessi e programmi diversi e/o alternativi. Viene il dubbio (il tragico dubbio) che si preferisca rimanere ognuno nel proprio recinto: riformisti e radicali. Solo che c’è un problema: il riformismo senza progetto è mera ginnastica politicista e… le radici, come si sa, non vedono mai aria.


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