[25/01/2008] Consumo

La doppia faccia dei consumi: rileggiamo il rapporto annuale di Confcommercio

LIVORNO. Occorre ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale per rilanciare i consumi che sono al palo. Questa frase rilanciata ed echeggiata da tutti i giornali di ieri, disegna la ricetta che Confcommercio e il suo presidente Giuliano Sangalli auspica per l’Italia, dopo la pubblicazione del rapporto annuale dedicato ai consumi degli italiani. Greenreport rischia di venire a noia quando evidenzia che non è proprio il massimo della correttezza titolare per esempio “Consumi in calo” quando invece a calare è in realtà la crescita dei consumi (dall’1,5% del 2007 all’1,2% del 2008, stima Confcommercio). Sarebbe anche ripetitivo (e per questo sfociare nel presuntuoso) sottolineare che per un attimo il titolo del manifesto “La doppia faccia dei consumi” ci ha fatto sperare che nascondesse una riflessione sull’intimo parallelismo tra la ricerca spasmodica della crescita a tutti i costi e l’altrettanto folle ricerca de La Soluzione (sempre alternativa, mai al plurale, mai integrata) al problema dei rifiuti (a Napoli come nel resto d’Italia e del mondo).

Niente da fare, l’altra faccia evidenziata dal Manifesto (anche giustamente, ci mancherebbe altro) è quella del rinnovo del contratto del commercio che è atteso da 13 mesi e la cui firma da parte di Sangalli, potrebbe forse contribuire ad avvicinare i suoi obiettivi a cui dovrebbe tendere il Paese per la Confcommercio, quelli di incremento della produttività e di rilancio dei consumi.

Vediamo il rapporto: Tende a ridursi nel tempo, in termini reali, la somma delle tre macrofunzioni che secondo Confcommercio sono le più importanti - cioè cura del sé, abitazione e pasti in casa e fuori casa - che dal 75% circa del 1992 si riduce a poco meno del 70% nel triennio di previsione. Per converso, cresce la quota delle rimanenti macrofunzioni - vale a dire tempo libero, vacanze e mobilità - portandosi dal 25% circa del 1992 a quasi il 30% nel triennio di previsione.

Il metodo di analisi è in parte nuovo: i concetti stessi di necessario e voluttuario non vengono utilizzati. Ciò che conta, spiegano a Confcommercio è la suddivisione delle spese per grandi funzioni di bisogni-desideri-relazioni: l’alimentazione non è più qualcosa di necessario, almeno non nella declinazione della ricchezza di prodotti, marche, formati di approvvigionamento oggi disponibili. E l’alimentazione domestica deve associarsi a quella fuori casa. La prima non è una modalità secondaria, marginale, basica o saving oriented di soddisfare un bisogno così come la seconda non è un lusso (si pensi al pasto durante la pausa lavorativa). Così è stato anche per la definizione degli altri grandi aggregati dalla mobilità alla cura del sé, dal tempo libero all’abitazione.

Del resto l’introduzione del rapporto non lascia dubbi su come la pensino in Confcommercio: «Ai consumi, in misura certa nella direzione ma variabile nell’intensità, si correla il benessere dei cittadini. Rilanciamo, in questo rapporto, l’idea che, alla fine, un consumo diffuso e crescente è segno e prova, ancorché largamente parziale, dello stato di salute del paese e dei suoi componenti».

Quindi per Confcommercio (non solo per Confcommercio purtroppo) più consumi uguale più benessere. A prescindere da quali.
Se consumiamo più telefonini (ovvero se acquistiamo con sempre più frequenza telefonini consumandone sempre meno) stiamo meglio. Anche se il telefonino potrebbe avere effetti sanitari negativi sul corpo umano (lo sapremo solo fra una quindicina di anni, ora non ci sono i tempi perché una sperimentazione sia giudicata attendibile); e anche se nessuno si preoccupa di effettuare un life cycle anlysis sul ciclo di vita di un telefonino, sugli impatti ambientali, sanitari e sociali che il telefonino ha durante la fase di produzione, quella di utilizzo e quella di smaltimento .

Se consumiamo meno carne significa che stiamo meno bene. Eppure, per esempio, proprio il consumo di carne, che pure è stato annoverato dalla Fao come uno dei maggiori responsabili dell’effetto serra a causa degli enormi impatti che ha la zootecnica su aria, acqua e suolo (vedi il rapporto del novembre 2006 Livestock’s long shadow).

Del resto quello del consumo di carne pare una metafora della società (occidentale) dove l’obesità (e il colesterolo) è una delle malattie più devastanti tanto da far ipotizzare agli inglesi di doverla combattere dando soldi a chi riesce a dimagrire. E’ una metafora calzante perché la crescita della massa adiposa così come quella della crescita economica non può essere illimitata (un miliardo di obesi nel mondo, e 300mila morti l’anno negli Stati Uniti a causa dell’obesità).

E per soprammercato si potrebbe aggiungere che le persone più obese al mondo sono i poveri dei Paesi ricchi, mentre invece i quattro quinti dei bambini sottonutriti sono concentrati in 20 paesi in via di sviluppo.

Come leggere allora attraverso il prisma della sostenibilità, il dato che si spenderà di meno per carne e zucchero (-0,5%), pane e cereali (-0,7%) e di più per telefonini (+22%), servizi telefonici (+21,4%) ed elettrodomestici (+15,6%)? Forse con una rivoluzione culturale, o con il ricorso a strumenti quali ad esempio la contabilità ambientale, contenuta nella legge delega approvata qualche mese fa dall’ormai ex governo Prodi. Legge che però adesso non proseguirà il suo iter parlamentare…


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