[25/01/2008] Energia

I biocarburanti, i consumatori, lo shampoo e i biscotti

LIVORNO. Tra i sostenitori di etanolo e biodisel si guarda con grande preoccupazione alle perplessità sempre più grandi che circondano il settore delle bioenergie. In particolar modo si teme che l’Unione europea vieti l’utilizzo di biocarburanti ottenuti con colture che deforestano e sconvolgono territori di grande valore naturalistico, aree umide e foreste tropicali, come in Indonesia e in Amazzonia, per non parlare dei nuovi progetti che guardano all’Africa Subsahariana. Ma secondo Raya Widenija e Brian Halweil del Woldwatch Institute, la probabile stretta “qualitativa” dell’Ue potrebbe essere «buona sia per i critici che per i sostenitori. Nel complesso, è anche un bene per il settore dei biocarburanti, che è stato attaccato da tutte le parti negli ultimi mesi, perché potrebbe ripristinare la fiducia in alcuni suoi prodotti». Anzi, la possibile revisione degli impegni europei sui biocarburanti, chiesta proprio in questi giorni da molti parlamentari durante la discussione sul pacchetto energia e clima presentato dalla Commissione Ue, può avere il problema di non essere abbastanza severa.

Secondo il Worldwatch Institute la messa al bando di alcuni biocarburanti sarebbe buona, vista la tendenza ad approfittare di un mercato in forte crescita: «Come in qualsiasi coltura, quando la domanda cresce, gli agricoltori espandono la produzione su nuovi territori, qualunque sia la pendenza o l’erosione prodotta, o su parti di foreste o frazioni di zone umide. Il crescente aumento della domanda di cereali e semi oleosi per alimenti, mangimi animali e ora biocarburanti, incoraggi gli agricoltori di tutto il mondo ad espandere le terre arabili fino a quanto tollerato dalle leggi e dal mercato».

In Sudamerica la soia e gli allevamenti invadono l’Amazzonia e le piantagioni di palma da olio sono in continua ed allarmante espansione in tutte le foreste vergini e le grandi torbiere del sud-est asiatico. Una erosione di foreste e di biodiversità che ha due vantaggi per le popolazioni locali e più spesso per le grandi multinazionali dell’agroindustria: la distruzione delle aree boscate produce legno prezioso e amplia i terreni agricoli. Una “conversione” della terra che avviene spesso illegalmente, approfittando della complicità o della debolezza di governi incapaci di resistere alle lusinghe o alle minacce di imprese sempre più potenti e redditizie. Ma secondo Widenija e Halweil il problema non sono solo i coltivatori: «I consumatori hanno oggi probabilmente una parte più importante per la discussione che infuria sui biocarburanti. Le persone sono interessate ai biocarburanti perché vogliono fare qualcosa di buono per il pianeta, e se si rendono conto che alcuni di questi carburanti sono legati ad allarmati pratiche sociali ed ambientali, la domanda si prosciugherà, fino a smettere di acquistare le miscele di biocarburanti alla pompa e a fare pressioni sui loro governi per rivedere le decisioni sui biofuel. L’unica via da seguire per il mercato è quella di lavorare a standard di sostenibilità e ad un accurata misurazione del ciclo di vita dei biocarburanti e dell’impatto di gas serra che producono i biocarburanti».

Insomma, i biocarburanti sono merce e, come i jeans e le scarpe sportive, ogni gallone di biofuel dovrebbe essere “etichettato” per capire quali siano le sue origini e i suoi impatti ambientali e sociali, la sua filiera produttiva. «Senza una regolamentazione trasparente dal campo al serbatoio – dicono i due ricercatori - l’industria non è in grado di far vivere la sua promessa di un futuro più pulito e migliore. I vantaggi dei biocarburanti possono essere molteplici: ridurre la dipendenza dal petrolio, mantenimento di entrate e posti di lavoro nell’economia locale, riduzione delle emissioni di gas serra e di altri inquinanti, per dirne alcune. Ma non tutti i carburanti sono realizzati nello stesso modo, infatti i loro benefici dipendono fortemente dalla materia prima, da come è cresciuta ed è stata raccolta, dove è cresciuta, come è stata processata».

Produrre etanolo da mais irrorato con concimi chimici e molto meno efficiente dal punto di vista energetico e ambientale che farlo con mais prodotto utilizzando concimi organici. E il Woldwatch Institute fa un esempio sorprendente: negli Usa il biodiesel da soia prodotta localmente è molto più efficiente e climate friendly del mais per l’etanolo, e lo è ancora di più se la soia è prodotta con metodi organici.
Anche l’etanolo brasiliano prodotto da canna da zucchero potrebbe accrescere i suoi benefici climatici ed energetici, ma deve tener conto che se la canna da zucchero è coltivata su terreni erbosi, pesantemente irrigati, o trattati con molti fertilizzanti inorganici e pesticidi, inizia a perdere i suoi benefici ambientali. Peggio ancora se nella piantagione lavorano in condizioni di lavoro terribili braccianti sottopagati: ogni beneficio sociale è vanificato.

Per avere un futuro, i biocarburanti di seconda generazione devono essere realizzati con colture che hanno bisogno di poca acqua e che possono essere prodotte in terreni aridi, degradati ed in erosione, i benefici ambientali renderebbero queste nuove bioenergie più sostenibili del migliore etanolo prodotto con la canna da zucchero. Ma se i biocarburanti di nuova generazione, che derivano principalmente da colture erbacee e legnose a rapida crescita, non verranno prodotti con l’obiettivo di massimizzare i benefici sociali e ambientali, non potranno reggere la concorrenza del biocarburante prodotto con il mais.

Ancora una volta devono essere il mercato e le leggi a riconoscere ed incentivare i nuovi biocarburanti, altrimenti gli agricoltori non avranno nessuna ragione economica di convertire colture a forte consumo di acqua e prodotti chimici per produrre cereali e semi oleosi su terreni a volte completamente inadatti. La speranza è riposta soprattutto della preoccupazione di alcuni grandi produttori di non “sporcare” la loro immagine con metodi di coltivazione basati su abusi ambientali e sociali, una cosa che riguarda sempre più tutte le merci, compreso il cibo.

E forse sarebbe bene riflettere su quanto dice Jeremy Woods, un esperto di bioenergie del London’s Imperial College: «meno dell’1% del mercato dell’olio di palma è per il biodiesel, mentre il 99% viene prodotto per alimenti, cosmetici e usi industriali. Quindi il divieto di usare olio di palma per i carburanti da solo non è in grado di fermare la deforestazione». Per Raya Widenija e Brian Halwei, «La buona notizia è che puoi controllare gli ingredienti dei prodotti da acquistare, non mettendo nel carrello un panetto di margarina, un pacco di biscotti, caramelle o una bottiglietta di shampoo se si vede che contengono ingredienti nemici delle foreste come l’olio di palma».


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