[23/01/2008] Comunicati

World social forum, Gubbiotti: «Meno appuntamenti di massa per un movimento più consapevole»

LIVORNO. La risposta al forum economico mondiale di Davos, sarà quest’anno organizzata attraverso una giornata di azione globale, articolata attraverso iniziative diffuse e non con un meeting alternativo. Una scelta motivata dagli organizzatori come più consona alla fase attuale del movimento altermondialista che è impegnato in articolazioni tematiche e rivolte in maniera specifica alla realtà territoriale, pur rimanendo ancorato ad una alleanza globale per il cambiamento.

Un segno di affievolimento del movimento? O una fase di transizione?
Lo abbiamo chiesto a Maurizio Gubbiotti, responsabile del settore internazionale di Legambiente (Nella foto) e uno di protagonisti del movimento no global.
«La visione che posso avere io cioè quella di un osservatorio di una associazione ambientalista nazionale, di un paese che si può definire ricco in un contesto mondiale, è che l’iniziativa del 26 di gennaio, come giornata di azione mondiale, è assolutamente in continuità con il lavoro svolto sino ad ora dal movimento. E in perfetta continuità con gli appuntamenti che vedranno il forum sociale europeo a ottobre nei paesi nordici e con il forum mondiale che si terrà nel 2009 in Amazzonia e che avrà come portante il tema della crisi ambientale mondiale. La scelta di rallentare nel tempo gli appuntamenti di massa è quella di avere la possibilità di mettere in pratica una preparazione più ampia. Ma non si torna indietro su istanze come l’equo e solidale, sulla sovranità alimentare, sulla solidarietà sociale delle imprese e sulla denuncia di quando i diritti sono negati. Non si torna indietro sulla consapevolezza che serve una nuova stagione dei diritti. Non si torna indietro sul fatto che ambiente, salute e lavoro sono ormai considerati diritti e non più solo bisogni. Questa consapevolezza sta tutta nelle corde del movimento altermondialista o no global come si voglia chiamare».

Non le sembra però che nel momento in cui siamo, ovvero che c’è un riconoscimento della crisi ambientale e sociale del pianeta anche da parte di chi ne è stato il responsabile, manchi una sponda politica in grado di farne il perno attorno al quale agire il cambiamento? Sia la sinistra europea, sia i governi che si rifanno ai temi della sinistra, ad esempio in sud America, non sembrano cogliere questa opportunità.
«L’analisi è corretta ma si deve tenere conto di specificità che ci sono in America latina così come in Europa. E in ognuna di queste realtà si possono evidenziare degli aspetti che fanno capire che è ormai assodato il fatto che la crisi ambientale è una realtà e che rischia di rendere irreversibili alcuni aspetti assolutamente negativi. E laddove si sono fatti interventi e prese misure per frenare questa crisi, credo, che non si sia partiti dalla volontà di dare risposte al problema dell’equità sociale, ma magari dalla necessità di arginarne le conseguenze. La crisi ambientale è l’espressione più forte della negatività del modello attuale di sviluppo, che i paesi ricchi cominciano a rivedere leggendolo dal loro punto di vista. L’emigrazione dei 130 milioni di persone costrette a lasciare i propri territori per effetto dei cambiamenti climatici è un dato di fatto, con cui bisogna fare i conti in maniera definitiva, agendo sulle cause che lo hanno prodotto. Altrimenti non potrà che aumentare.
La presa di coscienza dell’insostenibilità di questo modello è passata anche grazie al movimento così come le risposte che a livello dei singoli paesi vengono messe in atto: processi di autodeterminazione, di autorganizzazione, buone pratiche».

Quindi lei dice che c’è un processo ormai in atto che non tornerà indietro e che porterà risultati in maniera costante, anche se può sembrare lenta per le dinamiche che sono in corso?
«Sì ed è un processo di cui va dato merito al movimento, non solo dal punto di vista mediatico e quindi della conoscenza globale delle problematiche, ma anche della continuità dei processi che stanno avvenendo. E’ evidente che il contesto, a parte le tante specificità e qualche segnale che pur arriva, è quello di una assenza di una governance mondiale capace di guidare questo cambiamento. Che appare ancora più evidente se ci limitiamo al panorama politico nazionale».


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