[07/01/2008] Recensioni

La recensione. Avventure urbane di Marianella Sclavi

Il buon padre di famiglia è sconvolto (almeno così sembra). Il cittadino “ antipolitico ” è sconcertato (almeno all’ inizio). L’ amministratore non riconosce più quale sia il suo ruolo (almeno, così pare). L’ architetto perde motivazione ed entusiasmo (almeno, così dice). La politica verticistica e decisionale (up-to-bottom) è allo stremo, ribaltata in uno dei suoi meccanismi più strutturali - il rapporto tra opere pubbliche e comunità locali - che quasi sempre cela le insidie più pericolose. La “ trasmissione ” diventa “ comunicazione ”, l´ imposizione muta in “ condivisione delle scelte ”, e il grande fiume che occupa la frattura tra cittadino e istituzione si riduce ad un ruscello, da scavalcare in un passo.

E’ questo il “mondo possibile” che Marianella Sclavi - docente di Etnografia urbana al Politecnico di Milano - ci accompagna ad esplorare (ponendosi fin dal principio come compagna di viaggio, e non come guida) nel suo “Avventure urbane – progettare la città con gli abitanti ”. E ad ogni passo del suo percorso l’autrice (in un dialogo a più voci con altri protagonisti del gruppo di progettazione partecipata “Avventura urbana ” di Torino, le cui esperienze di lavoro a cavallo dell’anno 2000 forniscono la cornice narrativa), espone il suo metodo di lavoro (“di vita ”): prima analizzare, poi frantumare e infine ricomporre i criteri di comunicazione tra individuo e individuo, e tra individuo e Istituzione, nel corso della realizzazione di un’opera pubblica.

Come scriveva Gregory Bateson (nel suo “Perchè i francesi agitano sempre le braccia?”, da “Verso un’ ecologia della mente ”, 1976) è necessario “supporre che una lingua sia prima di tutto un sistema di gesti. Dopo tutto gli animali hanno solo gesti e toni di voce... e le parole furono inventate più tardi. Molto più tardi”. Ed è questo il presupposto che, secondo la Sclavi, porta allo sviluppo di una “partecipazione” effettiva, e non di quel suo triste simulacro che talvolta (spesso?) siamo costretti ad osservare: non la gestione delle emozioni, ma la creazione di un contesto adatto al loro libero fluire. Non la sola gestione dei conflitti, ma la ricerca e la provocazione di essi in contesti simulati di tipo ludico (valga ad esempio l’esperienza americana e inglese del planning for real , fonte centrale di ispirazione per l’autrice, secondo la quale “la simulazione fornisce una cornice di gioco ai dialoghi e consente di litigare metacomunicando“). Il fine primario è aumentare il senso di appartenenza, di coesione interna non sciovinistica, di partecipazione attiva e perpetuata di una comunità alla progettazione del luogo in cui vive: “Se il microcosmo prende coscienza di essere parte di una comunità più ampia, diventa possibile una maturazione in senso dialogico e si possono cominciare a pensare e sperimentare nuove forme di democrazia e partecipazione“.

Non è facile recensire il libro in modo lineare: può essere considerato un manuale di progettazione partecipata (insediamenti urbani, insediamenti suburbani, programmi di recupero Urban, localizzazione partecipata di impianti indesiderati) e di tecniche di ascolto attivo, ”camuffato” da saggio sulle dinamiche di esclusione e disgregazione sociale e di loro contrasto attraverso forme di outreach e di public inquiry (inchiesta sociale). Oppure un trattato di ispirazione etica per la creazione di una società più coesa e responsabilizzata attraverso l’accesso alla pianificazione degli spazi comuni, quasi un manifesto politico “travestito” da testo tecnico-operativo. O ancora un insieme di resoconti ed esperienze sul territorio (compreso l’esperimento urbanistico di Giancarlo de Carlo a Terni – Villaggio Matteotti, 1974 – a cui sono dedicate ampie parti e che va annoverato tra le prime forme organiche di progettazione partecipata in Italia) che vanno nella loro globalità (e tramite il loro confronto) a costituire un romanzo sulla struttura emotiva degli individui che formano una comunità, e sulle metodologie per cogliere l’essenza creativa delle loro emozioni (anche di quelle più estreme) e trasformarla in proposta progettuale. Quasi un brainstorming di comunità, che separa il momento dell’ invenzione da quello della decisione, a fini creativi (per un processo di partecipazione reale, estesa e perpetuata nel tempo) e didattici. Obiettivi costanti dell’ analisi sono la ridiscussione dei ruoli progettuali e dei flussi informativi, l’individuazione e l’allargamento di “interstizi” nei processi decisionali che forniscano nuove chiavi di lettura e interazione, la lettura delle emozioni (e del loro manifestarsi, se messe in condizione di farlo) come “responsi oracolari” del pensiero dell’individuo, e non come sue distorsioni. E si pone come questione basilare del rapporto tra individui e spazi pubblici la ricomposizione della faglia comunicativa tra cittadino e Istituzione. Ricomposizione che deve essere allo stesso tempo strumento e fine del processo partecipativo: “non avere fretta di arrivare alle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca ”.

Il presupposto fondamentale individuato dalla Sclavi è il superamento della sfiducia iniziale, che sistematicamente ostacola l’ avvio e lo svolgimento di ogni processo partecipativo: la sfiducia dei cittadini nei confronti dell’autorità pubblica e dei mediatori stessi, la sfiducia tra individui all’ interno della comunità, la sfiducia e il timore di perdita di potere decisionale che può pervadere i cosiddetti gate-keepers (i “guardiani del cancello ” : amministratori, decisori, tecnici, “ognuno con le sue regole da difendere”). E per vincere la diffidenza, e tramutarla in “ sgorgo creativo” , è necessario (per il mediatore, per il politico, il tecnico, il cittadino-individuo) partire da una posizione di umiltà: rinunciare ad ogni rialzo del proprio pulpito, essere pronti a giocare e a guardare il mondo con gli occhi dell’ infanzia (la “centralità delle emozioni” è colonna portante dell’ ascolto attivo, e si contrappone all’ascolto di tipo passivo che punta alla loro neutralizzazione), adottare un approccio che l’autrice definisce volutamente “goffo” perchè finalizzato, invece che all’ affermazione di sé e della propria posizione, alla comprensione dell’ altro da sé: “Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché “. (...) “E’ la rinuncia all’ arroganza dell’ uomo-che-sa, è l’ accettazione della vulnerabilità, ma anche l’ allegria della persona-che-impara “.

In due sole espressioni: umiltà, e voglia di giocare. Non c’è infatti - forse crescendo tendiamo a dimenticarcelo - attività più costruttiva di quella ludica, per esercitare la mente al pensiero laterale, all’analisi multicriteri, alla “ creazione di mondi possibili ” , alla valutazione collettiva di dinamiche prima non considerabili perchè prese individualmente“. L’ obiettivo è valorizzare la polifonia di interessi e di protagonismi, la diversità, per inventare nuove soluzioni in grado di ampliare gli spazi e le scelte di ognuno”. E superare con la comunicazione e l’informazione (stavolta non in conflitto ma alleate tra loro) la sfiducia, esorcizzandola attraverso l’attiva possibilità data alla comunità di partecipare creativamente - in maniera reale, incisiva - alla progettazione del luogo in cui vive. Non scordiamolo più: il gioco è una cosa seria.

Torna all'archivio