[17/12/2007] Monitor di Enrico Falqui

Un pianeta fragile per un mondo diseguale

FIRENZE. Alla vigilia dell’indipendenza dell’India, fu chiesto al Mahatma Gandhi se riteneva che il suo paese potesse adottare il modello di sviluppo britannico. La sua risposta conserva un significato paradigmatico per cercare di ridefinire le nostre relazioni con l’ecologia della Terra: “L’Inghilterra ha avuto bisogno della metà delle risorse del Pianeta per raggiungere la sua prosperità. Quanti Pianeti servirebbero all’India per il suo sviluppo?”.

Nella Conferenza di Bali, appena conclusa, un passo positivo è stato compiuto nella direzione di stabilizzare le emissioni responsabili dei cambiamenti climatici, in modo da non superare il limite di riscaldamento del pianeta, fissato in un aumento della Temperatura media di 2 gradi centigradi.
Gli attuali modelli di impiego energetico e di emissioni stanno dilapidando i beni e i servizi ecologici del Pianeta, generando debiti ecologici insostenibili.
In pratica, ci comportiamo come un capofamiglia che spende in soli 10 giorni l’intero salario mensile e cerca di arrangiarsi in tutti i modi per arrivare alla fine del mese.

Sulla base della teoria di Robert Costanza (formulata nel 1998), se si congelassero le emissioni al livello attuale di 29 giga-tonn di CO2, tenendo conto di un limite massimo annuale di 14,5 giga-tonn di CO2, avremmo bisogno di due pianeti.
Tuttavia, sappiamo bene che i Paesi ricchi, pur possedendo il 15% della popolazione mondiale, utilizzano il 90% del bilancio di carbonio sostenibile. Quanti pianeti sarebbero necessari se i paesi in via di sviluppo seguissero l’esempio dei paesi ricchi? Robert Costanza calcolò alcuni anni fa che se ogni persona che vive nei paesi in via di sviluppo avesse un’impronta ecologica identica a quella media dei Paesi ad alto reddito, le emissioni globali salirebbero a 85 giga-tonn di CO2, un livello pari alla necessità di disporre di sei pianeti.

La risposta alla domanda di Gandhi solleva il tema che, fin dalla Conferenza di Rio de Janeiro (1992) ha dato origine a conflitti accesi durante i negoziati che , da allora, si sono svolti tra Paesi ricchi e Paesi poveri sul rapporto che intercorre tra le azioni necessarie per adattarsi alla sfida dei cambiamenti climatici globali e i temi della giustizia sociale e dell’equità necessaria a scala globale.
Anche nella recente conferenza internazionale di Bali è emerso con chiarezza che gran parte del “debito ecologico” è stato accumulato dai paesi più ricchi del mondo.
La sfida vera che abbiamo davanti è quella di definire un bilancio globale del carbonio che tracci una rotta equa e sostenibile e ci permetta di evitare mutamenti climatici pericolosi per la vita del pianeta e dei suoi abitanti.
Desmond Tutu, celebre arcivescovo anti-apartheid di Città del Capo, in un suo discorso all’Onu sullo sviluppo umano, è andato dritto alla radice del problema : «…Cosa significa adattamento per gli abitanti più poveri e vulnerabili del Pianeta, cioè i 2,6 miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno? Che strategie di adattamento può praticare una coltivatrice del Malawi impoverita se il ripetersi della siccità e la diminuzione delle piogge limitano la produzione agricola? E le persone che vivono nei vasti delta del Gange e del Mekong come dovrebbero adattarsi alle inondazioni delle loro case e dei loro terreni? …il termine “adattamento” sta diventando un eufemismo riferito all’ingiustizia sociale su scala globale… l’impronta ecologica di un contadino del Malawi o di un abitante di una baraccopoli Haitiana o di Manila sull’atmosfera terrestre è quasi inesistente»

Il persistere della mancanza di questa attenzione da parte dei Paesi ricchi nei confronti dei Poveri del mondo, rischia di trasformare le cosiddette “politiche di adattamento” verso i cambiamenti climatici in azioni che minano lo sviluppo umano per una gran parte delle persone più vulnerabili del mondo.
Secondo il miglior scenario possibile la “mitigazione climatica” inizierà a dare frutto a partire dal 2030, ma le temperature continueranno a crescere fino al 2050.
Quindi, ciò che è urgente e necessario è una strategia duplice di azione per vincere la sfida climatica a livello globale e per investire fondi di cooperazione allo sviluppo per i paesi più poveri e più vulnerabili alle conseguenze dei cambiamenti climatici.

I poveri del mondo non possono adattarsi per sottrarsi ai pericolosi cambiamenti climatici: sono passati 15anni dalla firma della Convenzione quadro delle Nazioni Unite (UNFCCC), nella quale «….i Paesi ricchi acconsentivano ad aiutare i paesi in via di sviluppo particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e a sostenerne i costi di adattamento». Tuttavia, pochissimo si è fatto fino ad oggi per onorare quell’impegno assunto nei confronti dell’umanità.
Ad esempio, fino a pochi giorni fa, le foreste mondiali risultavano essere la risorsa ecologica più visibile esclusa dalla cooperazione internazionale sulla mitigazione. Solo nella Conferenza di Bali si è raggiunto un accordo sui fondi già previsti dal Protocollo di Kyoto ( 86 miliardi di dollari entro il 2016) per compensare finanziariamente le politiche di riduzione della deforestazione da parte dei paesi poveri. L’idea consiste nel fatto che ogni ettaro di foresta tropicale e subtropicale che invece di essere abbattuto viene lasciato intatto, è un contributo alla mitigazione climatica globale.

Anche il ripristino di praterie gravemente degradate e la conversione di terre coltivate degradate in foreste e sistemi agro-forestali possono sviluppare la capacità di stoccaggio delle emissioni, dal momento che il carbonio è immagazzinato anche nel suolo e nella biomassa.
In altre parole, se il partenariato promosso recentemente dalla Banca Mondiale, cui hanno aderito per adesso 7 paesi sviluppati (Germania, Gran Bretagna, Olanda, Australia, Giappone, Francia, Svizzera, Danimarca, Finlandia) per il momento con l’ assenza dell’Italia, raggiungesse l’obiettivo di destinare 155 milioni di dollari l’anno a tale tipo di cooperazione internazionale per lo sviluppo, le enormi superfici di terre e di suoli agricoli abbandonati o degradati presenti oggi nella gran parte dei paesi poveri, come conseguenza di un modello di sviluppo sbagliato e imposto dai prestiti internazionali del FMI, potrebbero diventare, per questi Paesi, straordinarie opportunità per una duplice azione di risanamento del patrimonio ambientale nazionale e di mitigazione climatica a scala globale.

Mai come oggi, risuona attualissimo l’aforisma di Montesqieu «Un’ingiustizia commessa nei confronti di un singolo, è una minaccia per l’intera collettività».

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