[26/11/2007] Parchi

Guyana: foreste vendesi per interesse comune

LIVORNO. La Guyana è uno dei Paesi dimenticati del mondo e quindi anche uno di quelli rimasi più intatti. Quella che fu una colonia inglese per poi diventare la prima ed unica repubblica cooperativa del mondo, si affaccia sull’Oceano Atlantico ed ha alle spalle una delle foreste pluviali fra le più integre del pianeta. Un fragile e piccolo Paese povero ma non infelice, stretto tra l’altrettanto sconosciuto Suriname (l’ex Guyana Olandese) e due ingombranti vicini come il Venezuela (che rivendica gran parte della Guyana come suo territorio), e il Brasile (che non riconosce nemmeno lui i confini coloniali inglesi e dal quale arrivano tagliatori di alberi, bracconieri e minatori clandestini).

Un paese verde e spopolato, oggetto di molti appetiti attirati dalle probabili risorse petrolifere e minerarie e dall’enorme foresta pluviale con i suoi alberi preziosi, uno Stato praticamente disarmato, gentile, forse anacronistico nel suo caparbio spostarsi da un improbabile governo di sinistra tropicale all’altro, attento ai poveri (che tali sono rimasti) della sua piccola popolazione multicolore e dove la globalizzazione non è ancora arrivata davvero, appartando la Guyana in un verde angolino dimenticato dalla storia.

Ora, davanti al sempre più aggressivo ed armato Chavez e ad un Lula che guarda con disinteresse ai suoi poveri che azzannano le risorse del piccolo e ininfluente vicino, la Guyana alza le mani e si rivolge ai vecchi e ricchi colonizzatori per chiedere di salvare le proprie foreste, si dice disposta a cedere l´80% del proprio territorio volontariamente allo Stato di cui era dimenticata colonia tropicale, buona sola per mandarci in punizione oziosi ufficiali e funzionari a morire di noia e zanzare.

In cambio, la Gran Bretagna dovrà fornire strumenti e conoscenze per costruire quella “green economy” che le permetta di lasciare intatta la foresta e di non creare i disastri sociali del resto del Sud America. Ma il governo di Georgetown, la capitale della Guyana, non vuole svendere la propria sostenibilità, offre i sui gioielli verdi alla Gran Bretagna come “pozzo” di carbonio e chiede in cambio che le quote di emissioni previste dal protocollo di Kyoto vengano investite in sviluppo sostenibile e verde. Mette sul mercato mondiale delle emissioni le sue foreste per non farle (o doverle) abbattere, rilanciando e rinnovando le intuizioni che stanno dietro ad iniziative simili prese dal presidente ecuadoriano Correa o dal governo indonesiano, ma senza il “ricatto” sotteso da questi ultimi: se non ci aiutate continueremo ad estrarre petrolio o minerali oppure continueremo a distruggere foreste per coltivare le palme da olio.

La Guyana si presenta disarmata e disarmante, vuole solo salvarsi e salvare i sui giaguari, i tucani multicolori, gli indios e i caimani. Vuole salvare la sua essenza e il suo presente in un futuro immobile per dare un domani alla sua popolazione. Un atto che può sembrare tra il poetico e il disperato ma che deve essere stato ben pensato, anche per l’impatto mediatico che avrebbe avuto nell’ex madrepatria, da Bharrat Jagdeo, l’economista presidente della Guyana che rappresenta una delle tante sorprese positive che ci riservano ogni tanto i rappresentanti di Paesi piccoli e dimenticati che stanno defilati rispetto al flusso delle merci, delle notizie e dei conflitti. Ma che guardano quei pericolosi fiumi in piena per cogliere le occasioni che porta la risacca del fiume tempestoso della globalizzazione, nel quale noi occidentali stiamo immersi fino a non vedere nemmeno le sponde di un mondo che, per fortuna, non è ancora del tutto omologato.

La notizia di uno Stato sovrano che cede l’80% del suo territorio perché sia gestito in maniera conservativa è finita sulla copertina del giornale inglese The Indipendent ed è stata ripresa in tutto il mondo, anche in Italia da La Repubblica. E all’Indipendent il capo dell´organizzazione Rainforest Protection, Hylton Murray-Philipson, ha detto che «In mancanza di un trattato internazionale sulla protezione delle foreste pluviali, un accordo del genere potrebbe essere un esempio da seguire».

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