[26/10/2007] Comunicati

A Milano, a Torino, a Bologna e a Roma si può diventare manager dei brevetti

LIVORNO. Secondo una recente analisi di Page personnel l’ingegnere “brevettale” è una delle dieci figure più ricercate dalle aziende italiane. Da questa spinta nascono e continuano le esperienze di formazione dell’università di Torino, della Lumas a Roma e l’Alma graduate school di Bologna con i loro master, della Bocconi con il corso di laurea specialistica e del Mip di Milano con il corso di alta formazione.

Sembra che l’ approccio richiesto a chi si occupa di brevetti all’interno della azienda sia di tipo manageriale, non più solo tecnico-tecnologico: assistenza alla divisione della ricerca e sviluppo nella protezione delle nuove soluzioni tecnologiche, presidiare le fasi di produzione esterna e gli accordi di licenza, controllare la commercializzazione e sviluppare relazioni con le università e i centri di ricerca.

E per occuparsi di brevetti comunque, è necessario iscriversi all’ordine dei consulenti in proprietà industriali e sostenere l’esame abilitante. Quindi serve una formazione culturale ad hoc che le università e le scuole di specializzazione di Milano, Torino, Bologna e Roma offrono agli interessati.

La protezione dell’innovazione tecnologica attraverso i brevetti e i meccanismi di ricerca di tutela della proprietà intellettuale è fortemente cresciuta. Ma l’Italia resta a livelli inferiori rispetto alla media europea. Secondo i dati pubblicati dal rapporto annuale di Legambiente “Ambiente Italia 2007” in termini procapite i brevetti italiani sono appena il 60% della media europea e meno di un terzo rispetto alla Svezia. E al 2004 il totale dei brevetti in vigore di origine italiana era inferiore a quelli olandesi o canadesi e un quinto di quelli tedeschi.

Forse tutto questo dipende dagli scarsi investimenti fatti nella ricerca e nello sviluppo delle nuove tecnologie. In Italia infatti, la spesa reale per ricerca e sviluppo – sempre secondo il rapporto annuale di Legambiente – è pari a 15,2 miliardi di euro (1,1% del Pil). Si trova ai livelli più bassi dell’area Ocse, è inferiore ad alcuni dei nuovi paesi dell’Unione e la spesa per abitante dell’Italia è meno della metà di quella tedesca e appena un quarto rispetto a quella svedese.

Nel 2003 e 2004 è regredita, ma i dati provvisori riferiti al 2005 e al 2006 segnalano una ripresa della spesa della ricerca. L’anomalia è data in primo luogo dalla quota ridotta della spesa investita dall’impresa (concentrata in pochi settori industriali: automobilistico, aereonautica e ferrovia, chimica e farmaceutica e telecomunicazione) e in secondo luogo dai pochi investimenti pubblici (concentrati principalmente in Lazio ove hanno sede alcune istituzioni pubbliche di ricerca). E l’aumento della richiesta di queste nuove figure può e potrebbe essere letto come un segnale positivo anche in termini di sostenibilità.

Del resto investire nella ricerca e dunque nelle nuove tecnologie e nelle innovazioni che possono esser brevettate non comporta solo un vantaggio economico per l’azienda ma se orientata, anche un vantaggio per l’intera collettività sia in termini di salute sia in termini di sostenibilità ambientale e sociale.

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