[18/10/2007] Comunicati

L´altro Prodi tra il dopo Kyoto e i flussi di materia

LIVORNO. Lunedì il Parlamento europeo sarà chiamato a votare una risoluzione presentata da Vittorio Prodi che getta le basi su come dovrà essere impostato il Kyoto 2, di cui si comincerà a parlare concretamente dal dicembre prossimo, in occasione della conferenza di Bali. La risoluzione di Prodi (Nella foto) (che aderisce al gruppo dell’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa, Adle, ed è membro della Commissione parlamentare europea per l’ambiente, la sanità e la sicurezza alimentare), si basa sugli studi elaborati dall’ex ministro dell’ambiente tedesco Lutz Wicke che propone che le riduzioni di gas serra dovranno essere definite su base procapite.

Onorevole Vittorio Prodi, può spiegarci meglio il meccanismo che state proponendo?
«Io credo che il riscaldamento globale sia un effetto reale grave e urgente del comportamento dell’uomo e quindi abbiamo bisogno di raccogliere nel più breve tempo possibile il consenso globale per mitigarne gli effetti. Per ottenere il consenso ci deve però essere una proposta più equa rispetto a quella attuale del vecchio Protocollo di Kyoto per l’assegnazione di permessi di emissione. Già da un po’ lavoro quindi su questa proposta di Wicke che è riassumibile nello slogan: “Una persona, un permesso di emissione”. In pratica i permessi vengono dati a ogni paese proporzionalmente alla popolazione e credo che questo sia il modo più equo per assumersi la responsabilità di quello che le nazioni hanno già immesso nell’atmosfera fino a oggi. D’altra parte noi poi potremo anche chiedere ai Paesi in via di sviluppo di far fronte alle loro responsabilità impegnandole a mantenere i depositi naturali di carbonio che posseggono, ovvero le foreste. Così che ci sia un bilanciamento di pesi e di vantaggi. Questo nuovo sistema potrebbe essere accompagnato e introdotto gradualmente con interventi che tengano ancora conto come il protocollo attuale della serie storica delle emissioni, mentre si potrebbe prendere come base pro capite, il livello globale che noi pensiamo sia sostenibile nel lungo termine, per esempio al 2050. In sostanza politicamente il significato sarebbe il riconoscimento del carattere globale di questo fenomeno. E di una interdipendenza di tutti i paesi».

Quale pensa che possa essere il consenso alla sua proposta a livello europeo?
«Noi europei siamo nella condizione di proporre con coerenza questo tipo di sviluppo, abbiamo la capacità culturale per farlo e per questo sono molto ottimista, visto che avrò l’appoggio di autorevoli colleghi del Ppe, Pse e anche ovviamente dell’Adle che è il mio raggruppamento. Confesso che anche il fatto che la Merkel guardi con grande interesse a questa proposta è un motivo di grande ottimismo. Mi aspetterei infatti che tutti i tedeschi mi seguano».

Dal punto di vista delle singole imprese però le cose peggioreranno…
«Finora l’impresa ha fatto conto su permessi di emissioni ricevuti gratuitamente; questo francamente non è più sostenibile. E’ anche possibile quindi che il mondo imprenditoriale possa provare a ostacolare questo processo, ma dobbiamo renderci conto che non si può andare avanti con il modello del primo Kyoto in cui talvolta il mercato è stato allagato di offerte di diritti di emissione, perché assegnati senza approfondimento sufficiente. Queste oscillazioni non possono essere più ammesse. E oggettivamente non c’è mai stata scarsità di diritti di emissione».

E invece come pensa che gli Stati Uniti possano accettare un meccanismo del genere?
«Gli Stati Uniti purtroppo continuano ad avere un’idea assoluta della propria sovranità e non ne concepiscono limitazioni. Questo sarà il cuore del problema. Ma credo che la situazione potrà sfociare in una nuova fase di relazione internazionale, dove si sostituisca l’attuale visione competizione/conflitto con la cooperazione, cioè gestire assieme questa sovranità che sfugge ai singoli stati. E ripeto, L’Europa può funzionare da vero catalizzatore di consenso. Qui sta la vera sfida. Richiamare alla responsabilità che abbiamo: capire e far capire, anche agli americani, qual è lo sviluppo sostenibile, cioè quello sviluppo che permette un accesso equo alle risorse naturali da parte di tutti i popoli della terra e delle future generazioni».

Lei è molto ottimista.
« L’impresa è ciclopica ma sono ottimista perché dal sole in un’ora riceviamo l’energia equivalente a tutta quella che tutto il genere umano consuma in un anno. Si tratta quindi di riorientare anche culturalmente il nostro modo di produrre. Bisogna passare dalle fonti concentrate, che sono per lo più quelle fossili, a quelle diffuse, che sono rinnovabili. Questo vale per l’energia, ma anche per tutte le altre risorse naturali, visto che ormai a scarseggiare non è solo l’acqua, ma anche i metalli».

Sta parlando di flussi di materia?
«Certo che parlo di flussi di materia, perché la rivoluzione energetica la considero un’impresa non facile ma possibile. Ma anche come il primo esercizio di un grande compito che ci aspetta: cioè capire che anche per le altre risorse naturali noi dobbiamo convivere in una situazione di scarsità e di interdipendenza. Dobbiamo capire come organizzare la nostra società globalizzata perché lo sviluppo sia davvero sostenibile. Oggi molti dicono che il tenore di vita non può essere messo in discussione. Ebbene dobbiamo capire che proseguendo con questo modo di produrre e di consumare le risorse non sono sufficienti. Sempre che si voglia perseguire uno sviluppo equo e universale ovviamente, perché purtroppo la storia ci insegna che quando c’è scarsità di qualsiasi cosa, chi ha più forza la usa. Oppure l’alternativa è porci nella condizione di sederci a un tavolo e studiare come proporre un cambiamento del nostro modo di consumare e produrre perché le risorse non sono infinte».

Mi perdoni la metafora: non le sembra di star andando contromano in bicicletta su un’autostrada trafficatissima.? Il mondo sta correndo nella direzione contraria alla sua.
«Me ne rendo conto perfettamente. Ma restando nella metafora quello che io vedo è che l’autostrada finisce contro un muro. Allora vale la pena stare in bici sulla corsia di emergenza e dire agli altri di rallentare. Bisogna prendere sul serio gli obiettivi di Lisbona e andare oltre, bisogna costruire la desiderabilità di beni immateriali che sono legati alla conoscenza, alla consapevolezza, alla qualità della vita. In altre parole dobbiamo andare oltre il Pil e convertire una parte dei consumi».

In che modo pensa che sia possibile riconvertire l’economia in direzione della sostenibilità? Non ritiene che l’unica possibilità sia una governance mondiale che operi in tal senso?
«Penso di sì. Quello che a me interessa è lanciare l’allarme, perché è possibile fare un passo in avanti, guardando ad altri parametri non solo economici. Io mi sento obbligato a mettere i miei colleghi parlamentari di fronte a questo e so che il parlamento è disponibile a fare quel salto, a capire che cos’è la vera sostenibilità del nostro sviluppo. Perché stiamo attenti, io non proclamo alcuna decrescita, dico soltanto che è possibile un diverso sviluppo. Ce la possiamo fare sull’energia, e facendolo ci creeremo anche gli strumenti per attaccare il problema dell’uso corretto e sostenibile della altre risorse naturali».

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