[24/10/2012] News

Dall'EcoSummit 2012 tutte le chance green che i governi non sanno cogliere

L'economista ambientale: ĞL'Italia punti sul ricicloğ

Concluso a Columbus (Ohio) l'EcoSummit 2012, la conferenza mondiale sui problemi ecologici che riunisce le società internazionali di differenti discipline che si occupano di problematiche ambientali, è adesso tempo di tirare le somme. Come si sviluppa a livello mondiale la prospettiva di una riconversione ecologica dell'economia, e quali opportunità può riservare al nostro Paese per rilanciarsi dall'attuale crisi economica? Lo abbiamo chiesto a Simone Borghesi, economista ambientale dell'università di Siena e tra i protagonisti di questo Ecosummit.

Quando si tratta di un summit ecologista le premesse sono sempre molte, ma altrettanto puntualmente vengono smentite. Qual è il bilancio dell'Ecosummit 2012?

«Personalmente l'ho trovato un'occasione molto stimolante, ricco di personalità di spicco con le quali potersi confrontare e mettere in campo collaborazioni, idee. È vero che c'è un distacco tra il mondo dell'accademia e quello della politica, delle decisioni, che cerchiamo però pragmaticamente di recuperare. Si comincia a percepire un cambiamento in tal senso, sicuramente troppo lento alle nostre esigenze e quelle del pianeta, ma un cambiamento c'è. Anche gli economisti definiti mainstream cominciano a confrontarsi sui temi ambientali, aprendo le loro categorie mentali tipiche dell'economia. Su questo punto dobbiamo riuscire però a fare di più, quando anche all'Ecosummit la presenza degli economisti era una minoranza. Gli indicatori li danno gli scienziati naturali, che riassumono la capacità di carico di un ecosistema: gli economisti lavorano con questi dati per individuare lo strumento più adatto per raggiungere l'obiettivo. Parlarsi e riunire diverse prospettive diventa così fondamentale.

Sono passi difficili, dove manca l'interlocutore principale, i governi. Ma si nota adesso la presenza degli stakeholders, delle Ong, un'attenzione "dal basso" che credo finirà per influenzare anche i livelli alti. Per affrontare grandi problemi globali occorre un coordinamento tra i governi, ma proporre e sensibilizzare a livello locale può essere fondamentale, anche per determinare conseguenti indirizzi politici».

Nel suo report dal summit, scrive che «il problema cruciale non è se l'attuale sistema di sviluppo sia o meno sostenibile, ma quanto sia insostenibile»: può spiegare meglio questo cambio di prospettiva?

«Gli indicatori di sostenibilità e di insostenibilità sono due facce della stessa medaglia, e c'è il rischio parlandone possano essere scambiati per la stessa cosa. In realtà, affrontare il tema dal punto di vista degli indici di insostenibilità aggiunge qualcosa in più, tenendo in debita considerazione la percezione che l'opinione pubblica ha della distanza dl target da raggiungere. Molto spesso gli obiettivi ambientali che ci poniamo poi non li raggiungiamo. Utilizzare indici di insostenibilità introduce quindi in un certo senso il filone dell'economia comportamentale, studiando come reagiscono gli individui alla percezione dei problemi - che è un elemento chiave per indirizzare le politiche economiche. L'homo oeconomicus infatti non esiste, e gli individui agiscono sulla base di cosa percepiscono. Indicatori come l'ecological footprint, anche se possono essere carenti dal punto di vista accademico, hanno avuto il merito di far capire in modo semplice agli individui quanto siamo insostenibili».

Provando a declinare politiche ecologiche in indirizzi concreti ci si scontra spesso con la scarsa disponibilità a mettere in campo le risorse necessarie. Da questo punto di vista potrebbe essere efficace una riforma fiscale che sposti il carico fiscale dal lavoro ai consumi di energia e materia?

«Questa è un'antica questione, che dovrebbe tornare in auge proprio in questo periodo. In Italia si parlava di carbon tax dagli anni '90: c'è stata un'esperienza di pochi mesi e venne abbandonata. L'Europa - e l'Italia di conseguenza - ha virato poi su politiche più liberiste, basate più sul mercato, come ad esempio i permessi negoziabili, tralasciando la riforma fiscale: un ritorno che sarebbe più che benvenuto, anche a fronte delle problematiche che presenta l'utilizzo proprio dei permessi negoziabili.

In Italia è difficile parlare di carbon tax, quando il livello di fiscalità è già molto elevato. L'ambiente si farebbe sentire come un ingiusto ed ennesimo balzello. Per renderla spendibile, la carbon tax dovrebbe essere utilizzata tornando all'origine del suo principio ispiratore, e ottenendo un doppio dividendo: diminuendo il carico fiscale sul lavoro spostandolo sul consumo di risorse naturale potremmo infatti aumentare l'occupazione e diminuire l'inquinamento. Ci sono studi specifici al riguardo che dimostrano la fattibilità della cosa, e pure gli esempi concreti - come nel caso della Svezia - non mancano».

In Italia siamo ormai prossimi alle elezioni politiche, ma una politica industriale ecologica è ancora lontana dall'essere al centro del dibattito. Quali crede siano gli indirizzi più importanti in cui declinarla?

«Altrove se ne parla di più del rapporto tra ambiente ed economia, di modificare il paradigma di sviluppo. Anche l'Europa ha fatto passi avanti in merito, ma l'Italia non pare averlo percepito, almeno all'interno del normale dibattito politico. Occorre pensare ad un modello diverso, con al centro il benessere degli individui piuttosto che il Pil in sé per sé: se noi modifichiamo la nostra percezione del problema, anche le politiche riescono ad adattarsi e trovare le conseguenti soluzioni.

Per quanto riguarda le politiche industriali, in Italia la riconversione dovrà guardare agli aspetti globali. Se non possiamo pensare di essere competitivi su certi settori nel mercato globale dobbiamo pensare a riconvertirli volgendoci alla qualità dei prodotti. In Italia, invece, il livello di innovazione tecnologica in campo ambientale, in certi settori , rispetto anche ai nostri partner europei è drammaticamente basso.

Dobbiamo preparare il capitale umano necessario per questo cambiamento, investendo in istruzione e ricerca, anche da parte delle imprese. Anche per quanto riguarda specifici settori industriali, come quello del riciclo, se un Paese riesce a guadagnarsi un vantaggio iniziale su un settore, riesce anche a conquistare un vantaggio comparato rispetto ad altri Paesi, e crescere: in Italia abbiamo le capacità, le energie per essere all'avanguardia. Dobbiamo imparare a percepire l'ambiente non come un problema, ma come una grande occasione».

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