[24/05/2013] News

Dai microbi un'ancora di salvezza per le specie animali in via di estinzione

Il dubbio degli scienziati: «La zebra dello zoo reintrodotta in natura è davvero una zebra?»

Richard Conniff, uno scrittore americano, vincitore del National Magazine Award e che scrive per Time, Smithsonian, The Atlantic, National Geographic, fa il punto su Yale Environment 360 sulla ricerca sui microbi come nuovi strumenti per la salvaguardia della specie a rischio di estinzione.

Conniff parte da diversi anni fa, quando l'erpetologo Reid Harris  rimase sconcertato dal comportamento di deposizione delle uova di una salamandra di foresta comune che tendeva dei nidi, e cominciò a chiedersi se quel che vedeva poteva essere una nuova soluzione ad una delle più devastanti pandemie globali del nostro tempo. Nessuno allora lo sapeva, ma la salamandra quattro dita (Hemidactylium scutatum) stava per diventare la pioniera di un nuovo campo della biologia della conservazione microbica, un modo radicalmente diverso di intendere la protezione della fauna selvatica. La salamandra che  Harris stava studiando vive nella lettiera di fogli intorno agli stagni che vanno dal Michigan alla Florida. «Non tutte le femmine della specie tendono i loro nidi, ma quelle che lo fanno hanno un modo stravagante di tessere intorno alle uova, dentro e fuori - spiega  Conniff - Nel 2008, Harris ed altri ricercatori della James Madison University della Virginia hanno dimostrato che questo comportamento di tessere serve ad inoculare nelle uova i batteri antifungini dalla pelle della femmina, e quelle che ricevono questa forma di cure materne probiotiche hanno un tasso di sopravvivenza molto più elevato contro l'infezione da un comune fungo delle uova». 

Nel 2005, durante una conferenza erpetologica, Harris aveva detto che poteva essere possibile identificare specie di batteri anti-fungini presenti naturalmente sulla pelle di altre specie di anfibi e poterli "bio-aumentare" come protezione probiotica. Secondo lui questo potrebbe funzionare non solo contro il fungo delle uova, ma anche contro il fungo chytrid che sta causando massicce perdite di anfibi in tutto il mondo. Questo fungo negli ultimi 20 anni si è diffuso rapidamente ed ha infettato più di 500 specie di anfibi in 52 Paesi. Le spore del fungo chytrid, Batrachochytrium dendrobatidis (o Bd), invadono la pelle degli anfibi e ne bloccano la normale respirazione, portando a uno squilibrio elettrolitico, gonfiore del cervello ed alla a morte. Il chytrid ha già estinto in natura almeno due specie: il rospo dorato (Bufo periglenes Savage) delle foreste pluviali del Costarica  e la rana ad incubazione gastrica (Rheobatrachus vitellinus) in Australia. 

Secondo alcuni ricercatori questa pandemia potrebbe provocato addirittura  100 estinzioni di specie, cifra forse esagerata, ma gli erpetologi si aspettano tempi cupi per gli anfibi. Se questo gruppo di biologi fosse stato meno pessimista, probabilmente non avrebbe prestato nessuna attenzione alle teorie di Harris. «Per esempio - scrive Conniff -  alla domanda sull'idea di utilizzare microbi per proteggere gli animali sul campo e negli zoo, un curatore di zoo intervistato per questo articolo ha osservato che i conservazionisti  hanno già molto d i cui preoccuparsi "senza prendere qualche tipo di approccio biochimico"». Probabilmente sbaglia di grosso: solo negli ultimi 10 anni un rapido miglioramento della tecnologia di sequenziamento del Dna ha reso possibile ed economicamente praticabile identificare ogni tipo di batteri, funghi e virus che vivono dentro e intorno ad una specie, mentre in passato, i biologi potevano studiare solo la piccola percentuale di microbi che possono essere coltivati in una piastra di Petri.

Fino ad ora i ricercatori hanno applicato questa rivoluzionaria tecnologia principalmente alla comunità microbica umana, o microbioma, producendo un enorme cambiamento della percezione rispetto alla nostra salute. «Al posto della vecchia teoria del germe che vede i microbi come il nostro nemico mortale, ora sembra che siano anche nostri alleati essenziali, sia la causa di malattie che  una chiave per prevenirle», si legge su Yale Environment 360

L'anno scorso un team di ricercatori statunitensi che ha pubblicato su Conservation Biology lo studio "Conservation and the Microbiome", faceva osservare che «la comunità dei professionisti della conservazione sembra essere in gran parte inconsapevole di questi sviluppi» e proponeva che «I concetti ed i metodi utilizzati per studiare il microbioma umano potrebbero essere applicati per affrontare le sfide della conservazione, per esempio, per capire perché gli stessi Helicobacter bacteria che sono innocui nei ghepardi selvatici causano la gastrite in quelli negli zoo, o per capire come prevenire la sindrome da deperimento callithricid che affligge uistitì e tamarini in cattività».

L'idea di Harris sugli anfibi è stata un'illuminazione per Vance Vredenburg, della San Francisco State University, che ha instaurato una collaborazione con lui per verificare la teoria dei probiotici nelle montagne della Sierra Nevada, dove fino ad allora aveva assistito impotente all'invasione del fungo chytrid che spazzava via intere popolazioni di mountain yellow-legged frogs (Rana muscosa).  Eppure sulla pelle  di questi anfibi si trovavano le stesse specie di batteri anti-fungini che utilizzano le salamandre quattro dita, anche se non in quantità sufficienti a proteggerle. 

I due ricercatori hanno iniziato a preparare materiale in laboratorio, producendo secchi di una torbida zuppa batterica violacea, dato che il Janthinobacterium lividum prende il nome da specie di  colore bluastro. Poi hanno brevemente immerso nella "zuppa" delle Rana muscata allevate in laboratorio e, dopo aver atteso due giorni per fare in modo che il probiotico si insediasse sulla loro pelle, hanno esposto le rane al fungo killer chytrid. Nel gruppo di rane che non aveva subito il bagno protettivo ne sono morte quasi subito più dell'80%; nel gruppo trattato con i batteri anti-fungini sono sopravvissuti tutte. Vredenburg ha subito pensato a realizzare un test di protezione microbica sul campo in uno stagno a 11.000 piedi di altezza nei Sequoia e Kings Canyon National Parks, uno degli ultimi paradisi rimasti per le rane, dove il fungo chytrid stava per arrivare. 

Jo Handelsman, un biologo dell'università di Yale dice che «Probabilmente, l'idea che i biologi conservazionisti si rivolgano ai microbi nella lotta contro una pandemia non dovrebbe suonare così sorprendente. Gran parte della recente comunicazione sul microbioma della stampa popolare l'ha fatto suonare come un nuovo mondo scoperto dalla coraggiosa comunità medica. Ma il  la ricerca sul microbioma in realtà è nata nella comunità ecologica. Gli ecologisti hanno cominciato a pensare al ruolo benefico dei microbi almeno 130 anni fa, quando hanno individuato la funzione cruciale di batteri nel fissare l'azoto per la soia, le arachidi ed altri legumi. E' la comunità medica che ha preso in prestito il pensiero ecologico, non il contrario».

Comunque l'idea della biologia della conservazione microbica può sembrare ancora un salto nel vuoto agli  scienziati che si occupano di fauna selvatica, «Perché - come sottolinea Conniff  - richiede loro di pensare agli animali familiari dei loro studi non solo come organismi, ma come super-organismi, cioè come ad una specie ospite insieme ai suoi batteri, virus e funghi essenziali. Questo richiede di pensare non solo al  genoma, ma al meta-genoma, un termine coniato da Handelsman per i geni delle specie ospiti che interagiscono e per tutti i loro microbici compagni di viaggio».

Secondo Kent Redford, principale autore dell'articolo su Conservation Biology, «E' troppo presto per dire esattamente come questo nuovo modo di guardare alla specie cambierà il modo con il quale curare la fauna selvatica. Ma, per esempio, la comprensione del microbioma potrebbe contribuire a migliorare il tasso di successo, generalmente tragico, degli sforzi per reintrodurre in natura specie allevati in cattività.  Forse la zebra dello zoo reintrodotta allo  stato selvatico non è davvero una zebra, perché manca di alcuni microbi essenziali del suo habitat nativo. Ad esempio, le hellbender, una specie di salamandra gigante, sono rapidamente diminuite nei corsi d'acqua da New York all'Ohio fino al Mississippi. Ora vengono allevate in cattività negli zoo per la reintroduzione. Ma i loro giovani possono  avere comunità microbiche atipiche e depauperate e difese immunitarie native».  

Secondo quanto scrive Molly Bletz,  una ricercatrice  dell'Harris's lab della james Madison University, in un articolo che sarà pubblicato nel prossimo numero di Ecology Letters, «l'inoculazione probiotica  potrebbe aiutarli a gestire lo stress di essere rimessi in libertà». Anche se l'idea non è stato ancora testata,  Bletz ed il suo team  suggeriscono anche che «L'inoculazione probiotica potrebbe offrire protezione contro la sindrome del naso bianco che ha messo in ginocchio le popolazioni di pipistrelli nella parte orientale degli Stati Uniti» e raccomandano «Lo screening dei pipistrelli europei per vedere se un qualche tipo di microbo protettivo potrebbe far parte della spiegazione del motivo per cui i pipistrelli sopravvivono all'infezione patogena del naso bianco, mentre i pipistrelli del Nord America soccombono».

Altri ricercatori stanno lavorando anche sul microbioma di diverse specie di fauna selvatica per stabilire una baseline microbica, o per avere una prospettiva microbica su un particolare processo biologico. Per esempio, all'università del Colorado di Boulder, i ricercatori hanno recentemente confrontato i terribili batteri presenti nelle fauci dei draghi di Komodo selvatici con i batteri un po' meno nocivi dei loro simili che vivono in cattività nello zoo di Denver. Un altro studio dello stesso laboratorio ha esaminato il ruolo dei microbi nel ciclo festino-fame dell'alimentazione dei pitoni birmani. «Per essere sicuri che stavamo guardando proprio i microbi di un pitone - dice la ricercatrice Liz Costello - dovevamo prima di caratterizzare i microbi nel cibo che stava mangiando. Ciò significava mettere i ratti bianchi congelati in un frullatore e liquefarli per l'analisi. Sembrava un frappè al cioccolato, con i denti dentro». Come ha già scritto anche greenreport.it, recentemente su Science i ricercatori della Michigan State University hanno riferito di aver sviluppato una tecnica per prevenire che una specie di zanzara acquisisca e trasmetta la malaria, inoculandole un particolare ceppo di batteri  Wolbachia. Lo stesso team nel 2011 aveva già testato con successo sul campo una tecnica simile per  prevenire la trasmissione della febbre dengue.

Per testare l'idea probiotica  di Harris e del suo amico Vredenburg, l'unico campo di prova finora esistente è quello che il  National Park Service gli ha concesso nel 2010 in California, nei parchi Sequoia e Kings Canyon. Come precauzione contro l'introduzione di un microbo non familiare, Harris ha prima visitato il Dusy Basin, dove a luglio ha trovato i batteri giusti su una sola delle 40 rane raccolte. Durante i successivi 10  giorni, da una singola goccia è riuscito a produrre decine di miliardi di cellule batteriche, circa 10 litri di liquido. Poi è tornato per inoculare la sostanza sull'80% della popolazione di rane, tenendo il restante 20% non trattato sotto controllo. Più tardi, in estate, quando il fungo chytrid è arrivato proprio come ci si aspettava, sono sopravvissute solo le rane trattate. 

Ma la soddisfazione per questo risultato eccezionale è durata poco: un maltempo invernale eccezionale e la e la predazione da parte di specie invasive introdotte hanno decimato la popolazione di yellow-legged frogs  e Vredenburg  nei suoi controlli è riuscito a trovare nel Dusy Basin solo un paio di Rana muscata superstiti. 

In un test contro il fungo chytrid, un altro ricercatore ha inculato in laboratorio le stesse specie batteriche J. lividum a delle rana dorate allevate in cattività a Panama, l'esperimento è fallito completamente. Harris suggerisce ai suoi colleghi che «E' necessario fare una più attenta ricerca preliminare per identificare i batteri giusti per una particolare specie ed habitat».

La verità è che abbiamo solo aperto una porta su un nuovo universo dove ogni animale è una galassia a parte, sull'infinitamente piccolo e complesso,  dove l'attività scientifica può essere un giorno esaltante e il giorno dopo ribaltare ogni certezza  e che stiamo cominciando ad imparare che non si può trattare allo stesso modo il microbioma di piante, esseri umani e fauna selvatica. «Si tratta di molte specie microbiche diverse che interagiscono in una varietà quasi infinita di modi - scrive Conniff - il sequenziamento del Dna ora  può identificare tutte queste specie microbiche, ma è lunga la strada per capire come funzionano in una situazione particolare. Ed è ancora più lungo il tragitto da fare dal punto in cui siamo stati in grado di arrivare a quello per fare ciò che vogliamo fare  in questo momento e riuscire a farlo abbastanza a lungo per fare la differenza». 

Mentre Vredenburg sta continuando il lavoro con le sue adorate yellow-legged frogs, Harris si sta interessando del Madagascar, uno scrigno di biodiversità unica ed in pericolo  dove vivono  300 specie di rane coloratissime, il 99% delle quali non esiste in nessun'altra pare del pianeta. Finora, la grande isola al largo della costa orientale dell'Africa non è stata invasa dal fungo chytrid ed Harris dice che «Questo rende  urgente prepararsi studiando il microbioma degli anfibi, lì ed adesso. L'ideale per i ricercatori è identificare i batteri anti-fungini locali che proteggono una varietà di anfibi, piuttosto che una singola specie». Ma dato che catturare gli anfibi a mano, uno per uno, immersi  nell'acqua, è impraticabile, i ricercatori stanno lavorando per sviluppare protocolli per trattare interi stagni e zone umide. Una collega di Harris, Molly Bletz, sarà in Madagascar ad agosto per iniziare il lavoro preliminare per salvare un pezzo di irrinunciabile biodiversità, studiando i microbi più adatti a farlo.

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