[22/05/2013] News

Abenomics? La ricostruzione di cemento del Giappone post tsunami

Cosa c’è dietro la politica dei grandi lavori pubblici del governo Abe

Sul The Japan Times Winifred Bird, una giornalista  freelance che vive in Giappone e scrive di ambiente anche per  Environmental Health Perspectives, Christian Science Monitor e Yale Environment 360,ricorda  quanto detto dal  celebre fotografo di cave e cemento Naoya Hatakeyama: «La città e la cava di calcare sono come il positivo e negativo della stessa fotografia» e sottolinea che «Lo stesso si potrebbe dire per ognuna delle autostrade, delle dighe, delle barriere di tetrapodi in Giappone, che è uno dei paesi più ricoperti di cemento del mondo».

In Giappone la produzione di calcestruzzo annua ha raggiunto il picco negli anni '90 con quasi 200 milioni di m3, poi è calata a poco meno della metà dopo lo scoppio della bolla economica. Ora è la Cina a guidare la classifica di consumo di cemento (superando anche gli stratosferici dati pro-capite che hanno portato al sacco del territorio italiano), ma il nuovo governo di centro-destra di Tokyo sembra volersi riprendere il primato. Da noi si guarda con molta indulgenza alle politiche espansive del liberaldemocratico (e liberista) primo ministro giapponese Shinzo Abe, ma dietro il suo entusiasmo per i lavori pubblici c'è l'amicizia con la lobby del cemento giapponese e la produzione di calcestruzzo sembra pronta ad aumentare.

Intanto la cementificazione è in piena espansione (con una domanda  2 o 3 volte sopra la media) lungo le coste di Honsu, nella regione nordorientale di  Tohoku, dove è in corso la ricostruzione post tsunami del 2011. Kiyoshi Hosokawa, segretario della Ready-Mixed Concrete Industrial Association di Iwate, una delle prefetture devastate dallo tsunami, ha detto alla Bird: «Le navi stanno portando ghiaia da Aomori e Hokkaido. I cementifici hanno assunto personale e comprato più camion. La produzione sta andando a tutto gas». Lo stesso sta avvenendo nella vicina prefettura di Miyagi e Hosokawa sottolinea che «Fino a 9 nuovi impianti per produrre cemento saranno probabilmente costruiti sulla costa per soddisfare l'accresciuta domanda di strade, dighe ed edifici».

Il Partito Liberaldemocratico (Ldp) di Abe sta preparando un disegno di legge da presentare alla Dieta che consentirebbe di aumentare la spesa nazionale per le infrastrutture. Il cemento sembra essere il cuore del Piano di resilienza nazionale del centrodestra giapponese che prevede investimenti per 200 miliardi di yen in oltre 10 anni per realizzare, tra le altre cose, città a prova di tsunami, nuove strade e fognature migliori, per la protezione contro le catastrofi naturali e causate dall'uomo.  Ma qualcuno comincia a far notare che  in realtà si tratta solo del ritorno alla tradizionale politica di spesa del Ldp  basata sul cemento. Non a caso uno degli slogan della campagna elettorale del Ldp che gli ha permesso di sbaragliare un esangue Partito Democratico del Giappone era «Dal cemento alla gente», che faceva capire che gli investimenti pubblici nelle grandi infrastrutture avrebbero avuto ricadute nel welfare sociale. Ma l'impatto ambientale della produzione di calcestruzzo è enorme: intere montagne smembrate per ricavare ghiaia, pietrisco e sabbia, cave per il calcare, l'argilla ed altri minerali necessari per realizzare l'aggregato... Secondo un rapporto dell'Unione europea del 2012 «La produzione di cemento contribuisce per circa l'8% elle emissioni globali annue del gas serra anidride carbonica».

Quasi tutti i materiali necessari per produrre calcestruzzo, a cominciare dal calcare, sono abbondanti in Giappone. Negli anni '50, quando in un Paese devastato si misero le basi per il boom giapponese del dopoguerra, si utilizzava in gran parte ghiaia di fiume, ma gli alvei vennero presto gravemente impoveriti e  il governo mise rigide limitazioni ad un ulteriore sfruttamento. Le aziende estrattive si rivolse alle montagne, ai campi ed alle spiagge. Oggi la maggior parte dell'aggregato di calcestruzzo giapponese è costituito da pietrisco, con ghiaia e sabbia che compongono il resto. Dopo che l'eccessivo sfruttamento della sabbia dal mare interno di Seto per produrre aggregato ha fatto scattare nel 1990 il divieto di estrazione in quell'area, si è cominciato a parlare della possibilità di riutilizzare le strutture in calcestruzzo demolite, però attualmente solo un millesimo del materiale utilizzato in Giappone per il calcestruzzo proviene da fonti riciclate e questo materiale non è sulla lista ufficiale dei materiali approvati per l'utilizzo in progetti di lavori pubblici. Siamo lontanissimi dal Green public procurement europeo.  A Tohoku, dopo il terremoto/tsunami del 2011 era stato proposto di utilizzare le macerie riciclate per la ricostruzione, ma non è stato fatto perché questo avrebbe reso necessario creare una filiera del riciclo del cemento per soddisfare gli standard di qualità nazionali. Così ad Iwate si scavano i  letti di antichi fiumi scomparsi per estrarre la ghiaia per la ricostruzione e le miniere di ghiaia sono diventate sempre più comuni anche in altre prefetture, in mezzo a montagne e foreste, dove la ruscellazione e i sedimenti minacciano corsi d'acqua e falde idriche. Bird racconta del caso della città di Owase, sulla costa Prefettura di Mie, dove il deflusso delle cave è il principale sospettato in un grave problema ambientale: «Quando ci sono forti piogge, l'acqua che scorre nei fiumi diventa fangosa. Questa sfocia nella baia e danneggia le fattorie di alghe e pesce. Crediamo che sia il risultato di molti anni di sviluppo delle cave», dice Masashi Nakamoto, direttore affari generali della Cooperativa pescatori di Owase, che ha citato in giudizio il governo della prefettura per impedire la concessione di permessi per le nuove cave.

Ma la cosa più preoccupante per il post-tsunami  è che il governo giapponese sta rinunciando all'opportunità di proteggere le sue coste in modo sostenibile e sta invece costruendo alte dighe ed altre difese in calcestruzzo che secondo gli ambientalisti provocheranno gravi danni sugli ecosistemi costieri.

La cementificazione delle coste giapponesi viene prima dello tsunami: gli ecosistemi costieri del Giappone non erano già più in salute, decenni di ingegneria costiera avevano diviso la terra dal mare, trasformando grandi tratti di costa in una grigia linea di cemento, spingendo versi l'estinzione specie una volta comuni, come le tartarughe marine Caretta Caretta e diversi molluschi. Quasi la metà delle coste dell'Arcipelago giapponese sono state in qualche modo modificate e le scogliere costituiscono la maggior parte di ciò che è rimasto intatto. I due effimeri governi di centro-sinistra e qualche forza politica e sociale avevano cominciato a rendersi conto che, in un Paese dove la cultura del mare ha formato società e gastronomia per millenni, la gestione del territorio costiero aveva preso una strada sbagliata. Poi sono arrivati il grande tsunami e la catastrofe nucleare di Fukushima Daiichi. Il mare impazzito ha spazzato via centinaia di migliaia di edifici ed il 60% delle dighe. «Nel deserto coperto di macerie che è rimasto - scrive la Bird su Yale Environment 360 - studiosi, attivisti e pescatori ha visto allo stesso modo la possibilità di ripensare a come le persone vivono sulla costa. Invece, gli organi di governo nazionali e regionali si stanno muovendo per ricreare la costa di cemento che esisteva prima».

Per la ricostruzione delle prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima si prevede una linea di dighe incredibilmente alte e ampie. Alcune sono già state costruite, molte sono alla fase finale di progettazione. In molte aree è prevista una seconda barriera difensiva di terra dove piantare pini. Ma il post tsunami sembra davvero una ghiotta occasione per la lobby del cemento: il governo di Abe sta approvando progetti per la  prevenzione delle catastrofi a livello nazionale e nuove dighe sono in cantiere ben oltre il Giappone nord-orientale colpito dallo tsunami del 2011. L'obiettivo dichiarato è quello di proteggere le comunità umane lungo la costa, ma le associazioni ambientaliste ed alcune comunità costiere dicono che qui piani sono una calamità ambientale. «Siamo di fronte alla possibilità che non sia lo tsunami, ma piuttosto l'opera di ricostruzione, che spazzerà via  importantissimi ecosistemi naturali lungo la costa»,ha detto Yoshihiko Hirabuki, un ecologo vegetale della Tohoku Gakuin University di Sendai.  Molte delle nuove dighe saranno più alte, più larghe e più lunghe di quelle di prima dello tsunami e devasteranno gli ecosistemi che erano riusciti a sopravvivere alla prima ondata di cementificazione. Ma gli ambientalisti giapponesi sono soprattutto delusi dal fatto che il governo si è lasciato scappare una rara occasione per avviare il recupero dei danni fatti nel passato con nuove strategie più sostenibili di gestione delle zone costiere.  Eppure, come spiegano i ricercatori scientifici giapponesi, dopo lo tsunami nelle piane di marea, nelle zone umide, nelle spiagge e nelle baie del nord-est del Giappone, nonostante i gravi danni ad alcuni siti, piante e animali selvatici sono in forte ripresa e comunità vegetali come quelle della costa di Sendai stanno ricrescendo al di là ogni aspettativa, mentre alcune spiagge sono diventate un giardino di piante autoctone con una ricchissima comunità di impollinatori, insetti e microfauna. Secondo una ricerca effettuata nel 2011-2012 nelle zone del disastro da Nature Conservation Society of Japan, lo tsunami ha creato nuovi habitat e l'Ong ha individuate una ventina di nuove paludi.

La ricostruzione minaccia il recupero naturale in numerosi modi. Le dighe, alcune delle quali arrivano a 45 metri di altezza ed a 150 di larghezza, sono in grado di bloccare il movimento tra terra e mare di acqua, sabbia e degli organismi viventi e possono cancellare fisicamente piane di marea, dune, e altri habitat importanti. Dato che richiedono strade costiere e argini di terra, anche i lavori di costruzione necessari per costruire queste strutture possono disturbare gravemente gli habitat naturali. Inoltre le  leggi sulla  valutazione dell'impatto ambientale del governo centrale non si applicano alle dighe, alle foreste di prevenzione delle catastrofi ed alle strade a due corsie, come quelle in fase di costruzione e in programma sul litorale. 

Va anche detto che le prefetture di  Miyagi e Iwate hanno istituito comitati per discutere il potenziale impatto ambientale delle opere «Mentre eseguiamo i lavori di costruzione, stiamo prendendo in considerazione ogni ecosistema e riceviamo consigli dagli esperti» ha detto a Yale Environment 360 Masayuki Kadowaki, direttore della divisione fiumi del Dipartimento lavori pubblici di Miyagi.

Ma Ryuichi Yokoyama, direttore di Natura Conservation Society of Japan,ribatte: «Quello che è il grande rischio è di perdere la spiaggia stessa. Gli ecosistemi costieri del nord-est del Giappone sono difficili da proteggere, perché ristretti e coincidono con i siti previsti dei progetti di ingegneria costiera, in una zona ampia forse un quinto di miglio. Costruiteci una diga e una strada e il vostro quinto di miglio è andato».

Ma qualcosa di positivo sta comunque accadendo, come spiega Satoquo Seino, un professore di ingegneria ambientale della Kyushu University che fa parte di un gruppo consultivo speciale del governo per la politica costiera, «E' la prima volta che l'utilizzo del territorio costiero è diventato un tema di dibattito nazionale.  Quando la politica di prevenzione delle catastrofi viene prima, gli ecosistemi sono secondari. I pianificatori del governo stanno facendo uno sforzo per ascoltare le raccomandazioni degli ecologisti. Ma questi gruppi non hanno potere politico o denaro. I pareri dell'industria delle costruzioni hanno la priorità, quindi non stiamo assistendo a grandi cambiamenti».

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