[10/05/2013] News

Licenziare per assumere un robot. Vinceremo la corsa contro le macchine?

Gallino: «Serve un piano per spostare masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali»

Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, cervelli pensanti del Mit di Boston, non hanno pubblicato a caso il volume Race against the machine quando la crisi economica è riuscita a bruciare nel mondo qualche decina di milioni di posti di lavoro, ancora da recuperare. Un sostanzioso contributo a questo brillante risultato è arrivato dal miglior alleato dell'uomo, la tecnologia. Un risultato che non dovrebbe sorprendere, da Ludd in poi: la novità è che adesso a soffrirne non sono soltanto gli operai sostituiti da un robot in catena di montaggio ma la classe media, che va assottigliandosi sempre di più.

Come scrive Paul Krugman sul New York Times, riprendendo le fila del lavoro uscito dal Center for Digital Business presso il Massachusetts Institute of Technology, questo è un fenomeno che «sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro [gli autori, ndr] addotti colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben distribuiti». Negli Usa molte multinazionali hi-tech tornano oggi a coprirsi sotto l'ala protettiva di Obama, contribuendo così al rilancio dell'occupazione nazionale (la percentuale di disoccupati è tornata al 7,5%, ai minimi dal 2008), ma secondo Krugman questo accade anche perché «ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot». Dunque, tanto vale abbandonare i finora accoglienti (ed economici) paesi asiatici a basso costo di manodopera e cominciare a rimpatriare.

Come spiega l'economista Gustavo Piga, il fenomeno della cosiddetta jobless recovery - la ripresa senza occupazione - è in atto negli Usa almeno dal 1982, e anche la ripresa da questa nostra crisi non sfugge alla regola. A soffrirne maggiormente le occupazioni di routine - manuali o intellettuali che siano - quelle tipiche della piccola-media borghesia, appunto. Tantissime mansioni stanno diventando automatizzabili. Quanti? Secondo la prestigiosa Associated press, nella sola eurozona «quasi 4,3 milioni di posti di lavoro a bassa retribuzione sono state creati dalla metà del 2009, ma la perdita di posti di lavoro di media retribuzione non si è mai fermata, per un totale di 7,6 milioni posti di lavoro scomparsi dal gennaio 2008 al giugno scorso».

Col risultato che, nella maggioranza dei paesi sviluppati, la disuguaglianza economica è in drammatica crescita (per chi la subisce): secondo i calcoli di Prometeia, soltanto in Italia il 3% delle famiglie più ricche custodisce il 25% dei patrimoni italiani. E i padroni della tecnologia incrementano progressivamente il proprio vantaggio sugli altri. «Risultato: senza scelte originali - osserva oggi il sociologo Luciano Gallino su la Repubblica - un tasso di disoccupazione intorno o al di sotto del 5 per cento, il meno che si possa chiedere a una società decente, al posto dello scandaloso 12 per cento di oggi, l'Italia non lo rivedrà neanche fra trent'anni. Con i suddetti sviluppi della tecnologia non siamo affatto dinanzi alla fine del lavoro, quale preconizzava Rifkin dieci anni fa. Siamo dinanzi alla necessità di concepire in modo diverso la creazione di occupazione e l'allocazione di questa a differenti settori produttivi. L'obiettivo primario dev'essere quello di creare posti ad alta intensità di lavoro».

Gallino prosegue citando esempi di tutela del territorio, di manutenzione della rete acquedottistica, della difesa dei beni culturali, della ristrutturazione per l'efficienza energetica. Se dobbiamo avere il coraggio di pretendere un'azione incisiva sulle leve della redistribuzione economica, dunque, per l'immediato è urgente investire sulla pratica di un'economia più sostenibile. Come sottolinea lo studio a marchio Bocconi Green economy: per una nuova e migliore occupazione, l'economia verde è - al momento, almeno - labor intensive, e dunque un'arma per la creazione di posti di lavoro che difficilmente potranno essere scippati a un umano da un computer.

È però inimmaginabile «che un'attività del genere si possa avviare con qualche riduzione d'imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono e simili - chiosa Gallino - è necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori  verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre meno, e perché no a una idea un po' più alta del paese in cui si vorrebbe vivere».

Un piano che, nell'emergenza, potrebbe prendere le mosse proprio da quell'Agenzia per l'occupazione che il sociologo torinese ha spiegato sulle pagine di greenreport.it, e grazie al quale con un investimento stimato dell'1,5% del Pil italiano (ricavabile indirizzando quella fetta di risorse mal gestite della spesa pubblica per appalti) potrebbe fornire un lavoro minimo utile a 1 milione di italiani. Allora sì, potremmo anche ricominciare a pensare «a una idea un po' più alta del paese in cui si vorrebbe vivere». Quella magari già sognata da John Maynard Keynes all'interno del suo Prospettive economiche dei nostri nipoti, scritto all'alba della Grande depressione: anche grazie alla tecnologia, scriveva, «il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana». Per tutta la razza umana, possibilmente.

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