[07/05/2013] News

Draghi, la violenza dei disoccupati e quella dell'austeritą

Per il presidente della Bce la disoccupazione «rischia di innescare forme di protesta estreme e distruttive»

La disoccupazione cresce, insieme agli anni di crisi che ci seguono dal 2008. Finora ha riempito le piazze solo a ondate alterne, soprattutto nei paesi del sud Europa. Secondo il presidente della Bce, Mario Draghi, siamo solo all'inizio: all'università Luiss di Roma, Draghi dichiara la disoccupazione - soprattutto quella «giovanile» - ha raggiunto ormai livelli che «rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive», una possibilità concreta che potrà essere limitata soltanto con una «crescita duratura».

I dati diffusi ieri dall'Istat sull'andamento di consumi e disoccupazione non concilieranno dunque il sonno del presidente: l'Istituto stima che in Italia il numero dei disoccupati continuerà a crescere non solo quest'anno, ma anche il prossimo. Come ricorda inoltre il Sole24Ore, nel primo trimestre di quest'anno sono 42 al giorno le imprese che falliscono, in Italia. Nel frattempo, già gli episodi di violenza non mancano. Talvolta quasi sommessi, verso se stessi: con tutti i distinguo del caso, il direttore dell'Osservatorio nazionale sulla salute, Walter Ricciardi, ricorda che negli ultimi 4 anni i suicidi per motivazioni economiche sono aumentati del 20-30%, solo nel nostro Paese. Altre volte, invece, la violenza è pubblica, fragorosa. Le immagini di scontri contro le forze dell'ordine, di manifestanti che urlano la loro disperazione contro la crisi e l'austerità, sono già arrivate in Europa. Anche a Draghi non devono essere sfuggite, e sa che partono da lontano: da «vent'anni - ha sottolineato - è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie che penalizza i più deboli».

Enrico Letta, in un incontro col premier spagnolo Mariano Rajoy, ha subito ribattuto: «Spero che il fronte dell'ordine pubblico non si apra, ma non si aprirà se l'Europa assumerà delle decisioni». Difatti, se le radici profonde della crisi fondano su un modello di sviluppo globale profondamente inadeguato, tanto diseguale nel distribuire pene e benefici quanto predatorio di risorse naturali, le contingenze fanno apparire l'Europa più indietro del resto del mondo. Contando l'eurozona con i suoi paesi in recessione, si stima che quest'anno il Pil mondiale segnerà un +4%; senza, si arriva al 5%.

L'America di Barack Obama, l'altra grande faccia del mondo occidentale, ha capito la lezione molto prima di noi europei. La disoccupazione ha raggiunto in questi giorni il 7,5%, dopo una corsa al ribasso (contro quella al rialzo italiana: si prevede che raggiungerà il 12,3% nel 2014). Si tratta del punto più basso dal dicembre 2008, agli albori della crisi. Certo, per cantare vittoria è ancora presto: il rapporto tra occupati e popolazione Usa è al 58,6%, troppo basso. «Questo significa che mancano all'appello 10 milioni di lavoratori - sottolinea Federico Rampini su la Repubblica - Molti di questi non appaiono nelle statistiche ufficiali perché sono gli "scoraggiati"». Ma Obama ha capito la strada, e cerca di tenere a freno gli istinti della patria del capitalismo che vuole ancora "affamare la bestia", lo Stato, nonostante l'evidenza. «Non è il momento di abbassare la guardia - si è rivolto il presidente Usa al Congresso - no ai tagli indiscriminati nella spesa pubblica». In Europa, invece, lo stesso Mario Draghi per mitigare il risanamento dei conti invoca il sempreverde (e necessario) «taglio delle tasse» ma anche «la riduzione di spesa pubblica corrente», senza particolari specifiche.

Il taglio degli sprechi pubblici rimane non solo doveroso, ma anche una preziosa fonte di risorse. Al contempo, la buona spesa pubblica è però riconosciuta come il più efficace componente della politica fiscale. Perché dunque ostinarsi a rifiutare di utilizzarlo? Semplificazioni normative e incentivi all'assunzione si sono finora dimostrati insufficienti a far ripartire l'occupazione. E mentre si discute di reddito minimo garantito, con aperture nel merito anche da parte del premier Letta, l'opzione del lavoro minimo garantito rimane ai margini del dibattito. Eppure, in Italia sia il territorio che il tessuto sociale risultano sfibrati, e di lavori socialmente e ambientalmente utili ci sarebbe bisogno come  il pane, contribuendo a migliorare il benessere (anche economico) della nazione, e ponendo le basi per un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo.

La macchina pubblica deve riappropriarsi del ruolo di volano dello sviluppo, con misure dall'impatto immediato. Tra queste, la creazione diretta di lavoro sembra al momento l'unica possibilità. A livello europeo se ne parla in qualche modo indirettamente proponendo l'applicazione della youth guarantee per l'occupazione giovanile, che gode di appoggio pressoché universale. È un buon inizio, ma è ancora troppo poco: si preferisce però continuare con la violenza di un'austerità vuota nei meriti, e carica di colpe. Ed è proprio di questa violenza gratuita che più di tutto dovremmo preoccuparci. 

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