[22/04/2013] News

Unilever e la strategia rifiuti zero che salva i consumi: la contraddizione continua

Le buone pratiche da sole non bastano per correggere un modello di consumo che non funziona

Eppur si muove, verrebbe da dire parafrasando il grande Galileo che si vedeva isolato e deriso quando proclamava che era la terra a girare intorno al sole e non viceversa. Parlando di rifiuti, i lettori di Greenreport ben conoscono il nostro sforzo, spesso isolato, di cercare di spostare il dibattito sulla complessità del problema e di non limitare l'attenzione solo su quelli di origine urbana, insistendo sulla necessità di affrontare, innanzitutto alla fonte, il modo sostenibile di gestire quelli originati dalle aziende (gli speciali, che sono almeno tre volte tanto in proporzione e di cui si parla pochissimo).

Abbiamo già scritto su queste pagine che un paio delle più grandi multinazionali del pianeta  hanno annunciato importanti provvedimenti in tema di sostenibilità dei propri cicli produttivi. Era il caso di Compass Group, che per chi non lo sapesse è la più grande società di ristorazione del mondo e che ha deciso di ridurre la propria impronta ecologica in termini di "carbon footprint". L'altro esempio riportava della Procter and Gamble e della sua adesione alla strategia "zero rifiuti in discarica" per i propri stabilimenti industriali (ma non certo dei beni di largo consumo che produce).

La settimana appena conclusa ha visto invece l'annuncio dell'eterna rivale di quest'ultima, la multinazionale anglo-olandese Unilever che ha dichiarato di aver raggiunto l'obiettivo "zero rifiuti in discarica" in tutti  i suoi 26 impianti di produzione negli Stati Uniti. Adesso la società può vantare che più della metà dei suoi stabilimenti (252 in tutti i continenti) avviano a riuso e/o a recupero (di materia e di energia) i prodotti di scarto dei propri processi produttivi. Questo risultato è reso possibile grazie alle performance già in atto da un paio di anni in Paesi chiave come Regno Unito, Olanda, Francia, Germania e Giappone (a quanto pare manca ancora l'Italia).

La più grande società dei beni di consumo al mondo ha spiegato che la riduzione dei rifiuti avviati a smaltimento è un componente fondamentale del suo "Sustainable Living Plan", che ha stabilito nel 2010 di voler dimezzare l'impatto ambientale entro il 2020.

Unilever è la casa madre di una quantità immensa di prodotti di largo consumo che è impossibile non aver acquistato almeno una volta nella vita. Solo per citare i brand più noti: Lipton, Tè Ati, Algida, Bertolli, Calvé, Gradina, Knorr, Findus, Slim Fast, Milkana, Bio Presto, Cif, Omo, Coccolino, Vim, Lysoform, Svelto, Axe, Rexona, Impulse, Dove, Clear, Atkinson, Mentadent, ecc. Nel 2012 ha dichiarato 171.000 dipendenti e un fatturato di 51,32 miliardi di Euro.

È evidente che con questi numeri e volumi l'annuncio stampa su "zero rifiuti in discarica" riveste un significato globale non proprio indifferente sulle sorti del pianeta. Ma è anche vero che con questo obiettivo l'azienda non acquista automaticamente il bollino verde della piena sostenibilità, anzi, anche perché sono ancora in corso alcune contestazioni in varie parti del sud del mondo circa alcune (presunte) responsabilità su danni ambientali causati direttamente o indirettamente dal proprio ciclo produttivo.

Tuttavia, bisogna prendere atto che con questa decisione strategica una sola azienda riesce a distogliere dallo smaltimento in discarica milioni di tonnellate di materia. E quando questo accade, bisogna rendergliene merito. Risulta però assai difficile pensare che possano essere aziende come la Unilever a reindirizzare i consumi dei cittadini verso orizzonti più sobri, consapevoli e sostenibili: un problema che rimane da affrontare nella sua interezza. 

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