[07/02/2013] News

Fermare il cambiamento climatico? Lavorare meno (per lavorare tutti) ci salverà

Diminuire l’orario di lavoro fa bene alla persona quanto al pianeta, ma deve esserci più uguaglianza economica

Lo strano neologismo workaholism - connubio tra work (lavoro) e alcoholism (alcolismo) - individua un disturbo ossessivo-compulsivo traducibile in dipendenza da lavoro, un comportamento noto dagli anni '70 e che ben rappresenta la massima espressione della strada che ci porterà all'inferno, neanche troppo metaforicamente. Il peggior scenario del global warming disegnato dall'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) ci preannuncia infatti un futuro caldissimo, con un aumento delle temperature di 5,8 °C nel periodo tra il 1990 e il 2100. Un allarme che, nonostante i molteplici summit ed accordi internazionali, non siamo ancora riusciti a scongiurare.

Una nuova risposta a questa sfida arriva adesso dal serissimo Center for Economic Policy and Research, think tank statunitense che ha pubblicato un documento dall'invitante titolo  La riduzione dell'orario di lavoro come mezzo per rallentare il cambiamento climatico. L'economista David Rosnick, autore della ricerca, riporta così in auge nella forma più intelligente quel dibattito che pochi mesi fa campeggiava - in modo non altrettanto stimolante - nei dibattiti politici nostrani: quello sulla produttività. L'idea alla base dello studio di Rosnick è invece molto semplice: «Meno ore di lavoro significa meno emissioni di carbonio, il che significa ridurre il riscaldamento globale». Dietro quest'assunto si muove un pensiero ben più articolato.

«Una parte del cambiamento climatico è inevitabile - scrive nelle sue conclusioni Rosnik - tuttavia, l'aumento del riscaldamento è possibile controllarlo per buona parte. Oltre a ridurre le emissioni con altri mezzi, una significativa riduzione dei cambiamenti climatici è possibile scegliendo una risposta più europea alla produttività piuttosto che seguendo un modello più simile a quello degli Stati Uniti. Di per sé, una combinazione di brevi settimane lavorative e vacanze supplementari che riduca le ore di lavoro di appena lo 0,5 per cento l'anno potrebbe molto probabilmente attenuare da un quarto alla metà, se non di più, quella parte di riscaldamento che ancora non è inevitabile». Nel peggiore scenario, si tratta di risparmiare 1,3 °C dei 5,8 previsti (vedi grafico).

Rosnik, nella sua disamina, rilancia quindi la posizione dell'Ipcc per cui l'aumento della produttività è sì importante, ma in un'ottica di «dematerializzazione», ossia di aumento nella qualità dei consumi e dei servizi, piuttosto che nel solo aumento della «quantità del consumo». In effetti, è l'unica via per non cadere nella divertente metafora della "sindrome circolare del rasoio elettrico" evidenziata da Georgescu Roegen, l'anticipatore dell'economia ecologica: ossia, «radersi più velocemente, in maniera da avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e così via all'infinito». Si tratta di una sindrome che in America ha fatto più vittime che nel Vecchio continente, secondo Rosink: «L'Europa occidentale nei primi anni ‘70 aveva quasi le stesse ore lavorate per persona degli Stati Uniti, ma nel 2005 erano circa il 50 per cento in meno».

Rosnik, piuttosto, riconosce il valore del bene «tempo libero». «Con l'aumento della produttività - scrive - diverse società possono semplicemente scegliere di lavorare di meno, piuttosto che aumentare la produzione». Un tema che appassionava a suo tempo anche il grande John Maynard Keynes, che predisse per gli uomini del XXI secolo un massimo di 15 ore di lavoro alla settimana, grazie ai benefici del progresso tecnologico. Un disegno all'opposto di quello che stiamo adesso tracciando con le nostre stesse mani, dove il progresso tecnologico si trasforma sempre più in una diminuzione degli occupati nei lavori più routinari in favore delle macchine. Nuova disoccupazione, non occupazione migliore.

Per poter lavorare meno, lavorare meglio e lavorare tutti (o quasi), non basta dunque il progresso tecnologico, benché meno l'aumento di produttività. Serve maggiore uguaglianza. «Negli Stati Uniti, ad esempio - sottolinea Rosnik - poco meno dei due terzi di tutti i guadagni di reddito dal 1973 al 2007 è andato a l'1 per cento delle famiglie». Così non va, perché meno lavoro non è un sogno, ma un incubo per chi è povero: «Vale la pena notare - chiosa Rosnik - che l'obiettivo di riduzione delle ore di lavoro come alternativa politica sarebbe molto più difficile in un'economia in cui la disuguaglianza è alta e/o in crescita». Ancora una volta, quindi, abbassare la febbre del pianeta garantendo la tutela dell'ecosistema passa anche da una tutela del benessere sociale (che non è traducibile nel solo aumento della produttività, o della crescita economica): non è un caso, e sarebbe l'ora che ce ne accorgessimo.

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