[29/01/2013] News

Riforme sì, ma quali? L'Europa continua il balletto, ma su una cosa è chiara: la green economy

Dalla precarizzazione ai vantaggi del tempo indeterminato, nessuno sa cosa vuole "cambiare"

Un anno fa le «Cassandre predicevano la fine dell'eurozona», ma di fatto è sempre in piedi. Viva. Anche se non proprio in salute. Olli Rehn (Nella foto), commissario europeo agli Affari economici, parla così al Parlamento Ue consapevole che «nonostante alcuni progressi ci sono ancora sfide», «quest'anno sarà un test essenziale per la credibilità» per l'Europa.  E in particolare si sofferma sull'allarme occupazionale, che non accenna a placarsi In Italia dal 2000 al 2011 si sono persi 370mila occupati nel solo settore manifatturiero, ma siamo in buona compagnia: in totale, l'Europa ha perso nell'industria 2,5 milioni di posti di lavoro, dei quali ben 570mila nella pur "virtuosa" Germania. Come cambiare rotta? Per Rehn tra le priorità figura proprio la necessità di ripristinare «la competitività dell'industria europea sia manifatturiera che dei servizi». Più facile a dirsi che farsi, certamente.

La più grande ferita da rimarginare rimane quella dell'occupazione, che continua ad allargarsi, con dolorosa e maggiore incisività tra i più giovani. In Italia la disoccupazione giovanile sorpassa la soglia del 37% e, al contempo, il paracadute della mano pubblica per frenare quest'emergenza si fa sempre più sfilacciato. In più punti, ormai, è già ridotto a brandelli.

Come osserva infatti lo Spil Cgil in un suo dossier sul welfare che ha visto oggi la luce, i Fondi nazionali per gli interventi sociali hanno perso negli ultimi 5 anni il 75% delle risorse complessivamente stanziate dallo Stato. Il Fondo per le politiche sociali - che costituisce la principale fonte di finanziamento statale degli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie - ha subito la decurtazione più significativa, passando da una dotazione di 923,3 mln di euro a quella di 69,95 mln.

Di fronte a un simile scenario, indicando la strada per la rinascita, lo stesso Rehn si dimostra ambivalente: da una parte si porta avanti la tesi  del «dobbiamo mantenere il ritmo delle riforme economiche», assieme alla necessità di «proseguire con il consolidamento fiscale, in quanto ci sono ricerche accademiche e prove empiriche che dimostrano come un debito al 90-100% del Pil ha un serio e negativo impatto sulla crescita». Dall'altra, Rehn promuove la «riforme equilibrate e ambiziose» del mercato del lavoro... favorendo - come riporta la Repubblica - anche «i "contratti a durata indeterminata" e la "contrattazione collettiva" per il reinserimento dei lavoratori». Esattamente il contrario di quanto finora imposto dai falchi europei ai Paesi periferici dell'Europa (tra i quali il nostro). La parola "riforme" sembra dunque affiorare a qualsiasi dichiarazione politica, ma su quali siano le riforme economiche sulle quali «dobbiamo mantenere il ritmo» anche un'unica (e più che qualificata) persona sembra andare in confusione con se stessa.

Quel che Keynes chiamava l'incubo del contabile, ossia il rigore dei conti, non può essere una direttiva di sviluppo. C'è un equilibrio da poter (e dover) raggiungere tra quest'incubo e la prospettiva altrettanto infausta di un irresponsabile sperpero di risorse pubbliche da parte di una macchina pubblica farraginosa ed inefficiente. Declinato sul piano manifatturiero, questa prospettiva potrebbe ben svilupparsi attorno ad un progetto di rilancio che non basi il suo effimero successo sulla svalutazione della forza lavoro come clava per conquistare i mercati esteri, in una corsa al ribasso che non reca alcun vantaggio al mondo del lavoro.

Una bozza di questo progetto c'è già, e si chiama Industria 2015. In tempi non sospetti, in queste nostre pagine rilanciammo già l'idea di allungare la vita di questo programma, ormai agli sgoccioli, fino almeno al 2020. Non possiamo che guardare con favore alla breccia che il tema è riuscito a conquistarsi in ambito politico, con il Pd alfiere naturale (Industria 2015 venne a suo tempo intavolata dal governo Prodi) della proposta, come ricorda oggi il Sole24Ore.

Industria 2020, assieme al progetto europeo Horizon 2020, formerebbero una solida base sulla quale provare a costruire un modello economico più sostenibile, economicamente, socialmente e ambientalmente. Se di sviluppo senza manifattura non ha senso parlare, una manifattura che centri la sua crescita attorno al perno dell'innovazione sostenibile è invece possibile: già Horizon 2020 ne contiene il seme, parlando di «materiali progettati secondo un approccio  basato sul ciclo di vita completo, dalla fornitura di materiali disponibili fino alla fine della vita ("dalla culla alla culla"), con approcci innovativi per ridurre al minimo le risorse necessarie per tale trasformazione». Il manifesto per l'utilizzo efficiente delle risorse, anche questo di matrice europea, ne è un altro lampante esempio. Almeno su questo, la posizione dell'Europa rimane chiara, ed è un'ispirazione da seguire: se «dobbiamo mantenere il ritmo» su qualcosa, puntiamo su questo.

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