[17/01/2013] News

Export in crescita per l’Italia: θ davvero una buona notizia?

Europa, θ il momento di collaborare

Ah, l'export, panacea di ogni male. I consumi interni sono ormai coperti da un unico mare di lacrime: quelle versate dagli italiani, che nel 2012 - riporta oggi la Repubblica - hanno ridotto la loro spesa di 50 miliardi di euro, suddivisi tra «20 miliardi di risparmi sulle spese ineludibili (cibo e salute in primis) e di 30 di tagli su quelle rinviabili (tipo l'acquisto di casa o auto)». In compenso - ma non ne sarà eccessivamente entusiasta la casalinga di Voghera, con la sporta della spesa così alleggerita - le esportazioni italiane hanno superato per la prima volta da 10 anni le importazioni.

Presentando insieme all'Agenzia Ice per il commercio estero il Piano nazionale dell'export 2013-2015, il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ammette sconfortato che «in dieci anni l'Italia ha perso il 30% della quota di commercio mondiale di beni», ma snocciola anche dati che sottolineano una posizione ancora di tutto rispetto per l'Italia: «Saldo della bilancia commerciale che sfiorerà i 10 miliardi, settimo Paese esportatore nel mondo, secondi nella Ue a 15 per rilevanza dell'export».

Quali sono, però, le motivazioni che hanno portato il Bel Paese a compiere un balzo nell'export proprio nel 2012, anno di profonda crisi per il resto dell'economia? L'export, è vero, a novembre 2012 è cresciuto del 3,6% rispetto al novembre 2011, ma al contempo le importazioni sono crollate nello stesso periodo dell'8,2%. Ecco che le ristrettezza dettate dalla crisi economica hanno, a modo loro, agevolato il sorpasso.

Qualunque siano i motivi, il ritorno del segno + per la bilancia commerciale italiana è una novità non trascurabile. Molti valenti economisti, in testa il premio Nobel Paul Krugman, denunciano da tempo come una delle principali debolezze dei paesi periferici dell'Unione europea (i cosiddetti Piigs, Italia compresa) si nasconda proprio - più che nella dimensione dei debiti pubblici - nel profondo rosso in cui affogano sistematicamente le rispettive bilance commerciali.

Per l'Italia si registra oggi un'inversione di tendenza, ma è una buona notizia soltanto a metà. Il recupero di competitività sull'estero si sta compiendo a suon di ampi sacrifici che pesano gravemente sulle spalle dei cittadini. Il regime d'austerità deprime l'occupazione e consumi interni, svalutando la forza lavoro ora che non è più possibile svalutare la moneta: non è forse un caso che la ripresa delle esportazioni sia tornata adesso a correre dal 2002, anno d'introduzione dell'euro.

L'arma brandita dai falchi del nord, quell'austerità che blocca la ripresa europea e al contempo spinge in alto i consensi della Merkel in patria (le elezioni non sono così distanti, e la cancelliera nei sondaggi stacca il leader dell'Spd, il partito socialdemocratico, 59% contro 18%), ci sta conducendo all'interno di una guerra tra poveri (presenti o futuri).

Il contrappasso del +3,6% nell'export italiano di cui sopra è anche in quel -2,5% dell'export tedesco, registrato nello stesso periodo. La Germania rimane lontana anni luce, ma l'Italia in crescita rosicchia percentuali del mercato più interessante, quello dei paesi emergenti: a novembre le vendite extra-Ue sono aumentate dello 0,9%, quelle intraeuropee sono diminuite dello 0,1. Sia per la Germania che per l'Italia il principale mercato di riferimento per l'export rimane l'Europa (il Bel Paese esporta il 56% dei propri beni e servizi nel resto del Vecchio continente): spostare adesso il terreno di battaglia su quello di un nuovo neocolonialismo commerciale verso altri paesi potrebbe voler significare nuovi quanto inutili spargimenti di sangue.

Se l'Europa accetta che la dimensione del suo benessere è comune, piuttosto che dettata dagli interessi egoistici di ogni singolo suo Paese membro, dovrebbe piuttosto concentrarsi sul quel grande mercato unico che è quello europeo, coordinando interventi per bilanciare gli squilibri che adesso lo dominano. A quale pro, infatti, buttarsi anima e corpo - un Paese contro l'altro - alla conquista di mercati stranieri? Con questi occorre certo rafforzare i rapporti, ma una politica di conquista può essere soltanto di breve termine. Il colonialismo finisce, quando non ci sono più terre da conquistare. E sugli alieni, al momento, non è possibile contare.

Progetti di sviluppo comune, ormai, abbondano nel continente. Dalle hypergrid che dovrebbero unire le potenzialità energetiche dei mari e dei venti del nord Europa col sole dei paesi mediterranei, passando per il manifesto per l'utilizzo efficiente delle risorse lanciato dall'Unione per proseguire lo sviluppo sulla strada di un'economia «rigenerativa, circolare» che sia «socialmente inclusiva e responsabile»; le basi per uno sviluppo comune ed equilibrato già sono state gettate. Serve adesso il coraggio e la lungimiranza per costruirci sopra: è il momento, per la democratica Europa, che la collaborazione si unisca alla competizione.

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