[10/01/2013] News

La missione politica dell'ambientalismo italiano non puņ fermarsi qui

«Non siamo insostituibili. Il punto è che non siamo stati sostituiti». Roberto Della Seta, senatore e legambientino, sintetizza così sul Manifesto il rammarico circa l'esclusione sua e di Francesco Ferrante dalle liste presentate dal Pd per la Camera e il Senato. «È rimasto solo Ermete Realacci - precisa Della Seta - Ci sono altri che si occupano di ambiente. Ma è stata silenziata una cultura politica che quand'è nato il Pd si è detto doveva essere fra quelle fondatrici».

Il dibattito sulla presenza degli ecologisti in Parlamento si allarga però oltre i confini del Pd. A scacciare la questione da quell'angolo di minorità in cui rischiava di essere rinchiusa - etichettata magari come settaria, o una delle classiche beghe di quartiere interne alla politica - ci pensa il Corriere della Sera: Aldo Cazzullo, in prima pagina, titola oggi  «La scomparsa degli ecologisti».

Sul Corriere si legge che, e non solo per il Partito democratico, «il problema non è solo di rappresentanza politica; è soprattutto di iniziativa politica. Nelle varie agende l'ambiente latita». Il problema, dunque - scrive Cazzullo - è che gli ambientalisti «non sono riusciti a ibridare» i partiti. «A diffondere le loro culture. A imporre un tema che attraversa tutti i campi della nostra vita quotidiana e della nostra attività, dalle politiche industriali alla sicurezza sul lavoro, dalla salute al turismo».

Sarà perché anche i cittadini se ne fregano? Secondo l'editoriale del Corriere, piuttosto, agli italiani questi temi «interessano moltissimo; infatti quando possono occuparsene lo fanno in massa e con determinazione, sia pure nella forma tranchant dei referendum, che riconduce temi complessi come la ricerca sul nucleare e le risorse naturali alla semplificazione talora eccessiva di un sì e di un no». Una semplificazione che porta della sanissima mobilitazione ma che rischia talvolta di dimostrarsi fatale, aggiungiamo noi, perché riesce a far riscoprire l'ambiente soltanto come un'emergenza da aggredire, piuttosto che un tema prioritario attorno al quale riuscire a confrontarsi in modo programmatico.

Che passi tra le mani delle sole élite culturali o dai cittadini nel loro complesso, l'intreccio di fila che lega l'ecologia all'economia e alla società diventa in ogni caso sempre più fondamentale da curare e valorizzare nell'ottica della sostenibilità. Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini richiamano anche oggi l'attenzione, dalle colonne de la Repubblica, sull'opportunità di tingere di verde la ricetta keynesiana (finanziata tramite un lancio dei famosi Eurobond): trainare occupazione e ripresa economica tramite l'azione della mano pubblica, puntando al contempo sulla «riconversione ecologica dell'economia».

Lo stesso ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, ha annunciato ieri la sua «agenda verde per la crescita», declinata in 8 punti (inaugurando anche la possibilità di un dibattito online aperto alla società civile). Dal Manifesto a Clini, dai referendum al Corriere della Sera, l'economia ecologica sembra dunque diventare un'idea presente e trasversale.

Eppure, quando si arriva alla decisione politica effettiva, l'ambiente cade sempre in serie D. Perché? Una risposta a colpo sicuro è quanto mai difficile da offrire, e non abbiamo qui la presunzione di proporla. Sicuramente, qualcosa ancora manca. Innanzitutto, quella consapevolezza intrinseca di un sistema del tutto interdipendente, che lega quello che produciamo e consumiamo quotidianamente ai grandi meccanismi che regolano l'oscillare incerto della nostra struttura sociale e, ancora più in alto, ai delicati meccanismi che determinano l'equilibrio dell'ambiente che ci circonda e permette la nostra (e non solo nostra) sopravvivenza.

Non è questo un tema che possa essere affrontato a spot e slogan, concentrandosi soltanto su quei problemi che riusciamo comunemente ad individuare solo perché si trovano a meno di un palmo del nostro naso (come nel caso dei nauseabondi cumuli di monnezza che periodicamente affiorano sulle strade delle città italiane) o perché ormai - e per fortuna - sono venuti a far parte del comune sentire, come le energie rinnovabili.

Non è un caso se perfino l'agenda dell'esperto ministro Clini, il quale di sostenibilità se ne intende certo più di noi, non abbia al suo interno un riferimento preciso circa il contenimento e la gestione di quell'enorme mole di materia che soddisfa l'appetito dell'economia italiana, quel material throughput contabilizzato dall'Istat in un flusso di circa 2 miliardi di ton/anno (quando il totale dei rifiuti urbani - differenziati e non - arriva "appena" ai 30 milioni/anno: eppure, siamo capaci di vedere solo quelli).

La sfida dell'ambientalismo, e non solo quello italiano, è dunque quella dell'educazione alla complessità. E, al di là dei singoli nomi (anche a noi cari) che la portano avanti, è troppo importante, troppo urgente e ancora troppo indietro perché possa fermarsi proprio adesso - nel periodo più incerto della crisi - nel quale ne abbiamo ancora così disperatamente bisogno.

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