[13/12/2012] News

Chi e come deve gestire l'ambiente

I problemi dell'ambiente mai come in questo momento tornati alla ribalta delle cronache in tutta la loro drammaticità, stanno riproponendo acutamente e con effetti preoccupanti  - in parte anche imprevisti - delicati e irrisolti aspetti  istituzionali.

Dopo prolungati  silenzi e  non poche manfrine, infatti, sul Titolo V rimasto per oltre un decennio lettera morta, si sono riaperte le ostilità da parte dello stato che approfittando delle ultime scandalose vicende  che hanno investito soprattutto le regioni, sta tentando disinvoltamente di ricentralizzare competenze e ruoli finora malamente e rovinosamente gestiti.

Ultimo in ordine di tempo  il tentativo di rimettere in discussione la competenza delle regioni in materia turistica che lo stato  vorrebbe ora ‘concorrente', mentre per  altre competenze  già concorrenti si vorrebbe espellere del tutto le regioni.

Per non ridurre quindi ancora una volta aspetti così complessi e determinanti a incomprensibili pasticci e furbate  e riuscire finalmente a garantire un governo del territorio che non faccia strame dell'ambiente, sarà bene forse ripercorrere sia pure sommariamente alcuni fondamentali passaggi di una vicenda politica, istituzionale e culturale che in troppi sembrano ignorare o aver dimenticato. Non già per negare la crisi ma per coglierne l'effettiva portata e soprattutto le cause che l'hanno determinata cosi da poter individuare le risposte giuste senza trucchi e senza inganni a cui in molti hanno già messo attivamente mano.

L'ambiente ‘entra' nelle istituzioni

E' bene partire, perciò, da quando lo stato con  le regioni e gli enti locali ha assunto competenze e ruoli più definiti e precisi in campo ambientale; inquinamento, suolo, mare, parchi e aree protette perché prima della istituzione delle regioni e della riforma degli enti locali solo lo stato in base all'art 9  aveva competenza sul paesaggio esercitata dalle sopraintendenze.

Lo stato ha messo mano a politiche nazionali sull'ambiente soprattutto dopo la tardiva istituzione delle regioni con le quali è stata avviata anche la riforma degli enti locali.

Prima il paesaggio era gestito  sulla base di una concezione prevalentemente ‘vincolistica' e riservata principalmente  ai monumenti e al patrimonio artistico, insomma per ‘punti' che davano luogo ad una mappa fitta ma on raccordata e perciò di fatti incontrollabile e ingestibile nel suo insieme, tanto è vero non si riuscì mai ad adottare veri piani paesaggistici degni di questo nome.

L'ambiente nella sua complessità, inteso cioè come sicurezza del suolo, tutela della natura e della biodiversità   ha dovuto aspettare la legge sul suolo 183,  la legge sul mare 979, la legge quadro sui parchi e le aree protette 394 che andarono ad aggiungersi alla legge Merli  sull'inquinamento. Solo con queste leggi, infatti, lo stato, le regioni e gli enti locali hanno assunto competenze e ruoli in ambiti fino a quel momento esclusi o riservati a strutture statali come i geni civili non preposti tuttavia a ruoli di programmazione e pianificazione del territorio.

Solo con queste nuove leggi nazionali  lo stato, le regioni ed enti locali furono chiamati a gestire con ripartizioni  diverse  di competenze e responsabilità i piani dei bacini idrografici, quelli costieri, fluviali e, infine,  quelli dei parchi nazionali e regionali e delle altre aree protette. La tutela paesaggistica fuoriesce così dalla sedi delle sopraintendenze per trovare posto, ad esempio, nei piani dei parchi e dei bacini. Tanto che quando il Parlamento discuterà del Decreto Galasso  il relatore fu interrotto e gli fu chiesto cosa c'entrassero i fiumi con il paesaggio.

Interrogativo che sarebbe ritornato più volte successivamente fino a tempi più recenti con il Nuovo Codice dei Beni culturali che ha sottratto ai piani dei parchi il paesaggio tanto è vero che quando in anni precedenti l'entrata in vigore della legge 394 sui parchi fu predisposto e approvato il piano Cervellati del parco di San Rossore che tra i primissimi tenne conto anche del paesaggio, una parte significativa del mondo ambientalista e accademico si chiese se non si fosse esagerato  a danno della natura.

Ricordo anche una Conferenza nazionale sul paesaggio promossa dal ministero dei beni culturali a cui parteciparono anche i parchi che però nella sostanza furono di fatto ignorati tanto che Federparchi -ricordo-non mancò di manifestare la sua critica e delusione.

E tuttavia nonostante queste difficoltà a prendere atto della nuova realtà per  la prima volta anche il nostro paese forte dell'art 9 si faceva carico -come era già avvenuto in altri paesi non solo europei- di tematiche ignorate o che erano state considerate solo -come la costa e il mare- dal punto di vista della difesa.

Cambia il contesto nazionale

La speculazione che aveva già cominciato a far danni irreparabili sulle coste ma anche sul restante territorio con una cementificazione senza controllo e un inquinamento che sarebbe esploso in tutta la sua drammaticità a Seveso, ‘costrinse' le istituzioni  a rimedi anche normativi fino a quel momento elusi o ripetutamente rinviati come nel caso della legge sui parchi che infatti fu preceduta dalla istituzione di parchi regionali soprattutto in alcune regioni; Piemonte, Lombardia, Toscana, Sicilia,Marche e altre.

Istituzioni tradizionalmente non impegnate anche sotto il profilo amministrativo se non per aspetti meramente vincolistici, dovettero impegnarsi e attrezzarsi per poter gestire politiche di programmazione e pianificazione in ambiti del tutto inesplorati. Il che pose delicati e nuovi problemi sia dal punto di vista delle assemblee elettive che   delle strutture amministrative,  visto che persino in parlamento ci si chiedeva cosa c'entrassero i fiumi con il paesaggio e ancor più con la pianificazione a cui ora erano chiamate le autorità di bacino; politiche che  non richiedevano ovviamente solo scelte tecniche.

Questione che divenne particolarmente chiara specie con la istituzione degli enti parchi ossia soggetti istituzionali di tipo nuovo e speciale rispetto ai  consorzi del vecchio Codice d'epoca fascista. Enti  non elettivi ma dotati da una legge appunto ‘speciale come la 394 di competenze pianificatorie sovraordinate e non delimitate e circoscritte  dai confini comunali, provinciali ed anche regionali e che dovevano essere affidate a persone ‘competenti' sul piano del governo di realtà fino a quel momento del tutto estranee alle stesse istituzioni elettive. I vecchi parchi storici da questo punto di vista non costituivano un precedente di cui poter fare tesoro perché la loro gestione era affidata dal ministero dell'agricoltura e tecnici. La scelta a cui furono chiamati lo stato, le regioni e gli enti locali con le loro designazioni negli enti parco regionali e nazionali, indusse -tra non pochi impacci e anche infortuni ‘politici'- ad avvalersi di persone che per la prima volta sarebbero state messe alla prova in un ambito dove gli errori potevano costare cari anche dal punto di vista del discredito politico-istituzionale e dei danni all'ambiente, come poi sarebbe purtroppo avvenuto in non pochi casi specialmente in tempi peraltro a noi vicini a seguito di quella crisi della politica e delle istituzioni da cui ancora non si è usciti. Fu quella per molti versi una sfida politico- istituzionale anche sul piano della organizzazione degli apparati; ministeriali, regionali e locali dove a differenza di comparti come quella della sanità ma anche altri, era assai più difficile ricorrere e avvalersi di competenze già collaudate. Non è un caso che quando il parlamento condusse la sua prima indagine sulla legge 183  la conclusione fu che per una più efficace  gestione dei bacini idrografici sarebbe stato bene tener conto della esperienza positiva dei nuovi enti parco, ricorrendo anche per il suolo a gestioni in grado di coinvolgere di più e meglio tutti i livelli istituzionali centrali e locali, come appunto si era fatto con la legge 394.

-1-continua

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