[09/11/2012] News

I penan del Sarawak contro la grande diga cinese

Gps e testimonianze per mappare i territori ancestrali

La controversa diga di Murum, nel Sarawak, uno dei due Stati malesi del Borneo, è il primo grande progetto all'estero della China Three Gorges Project Company (Ctgc) che sta costruendo centrali idroelettriche e a carbone in 23 Paesi. I cinesi della Ctgc vogliono realizzare dighe idroelettriche in Sudan (diga di Merowe), Camerun, Etiopia, Kazakhstan, Pakistan, Sud-est asiatico, Nord Africa, Nepal, Ecuador e nell'America centro-meridionale, ma nel Sarawak si sono trovati davanti un osso durissimo: la tribù dei Penan, una delle più antiche del mondo, che con la sua protesta rischia di creare un importante precedente per le trattative con i popoli indigeni, cosa alla quale i cinesi non sono abituati, spesso nemmeno a casa loro.

La tribù Penan sono un popolo nomade che ha un profondo rispetto ed un legame inscindibile con  il territorio. Fanno parte degli Orang Ulu, un termine collettivo per i clan indigeni che vivono lungo il corso superiore dei fiumi e la tribù da decenni di protesta contro le grandi concessioni forestali e le piantagioni di palma da olio che continuano ad erodere le terre ancestrali delle loro comunità e che distruggono il loro antico stile di vita. 

La Sarawak Energy, una società statale, vorrebbe costruire 12 dighe in quello che è stato chiamato Sarawak corridor of renewable energy (Score) e dice che le realizzerà tutte entro il 2020, con l'intento di dotare la Malaysia di più industrie ed infrastrutture, non importa se questo avverrà distruggendo vaste aree di foresta pluviale e territori indigeni. Il Sarawak è ancora ricoperto dalla foresta pluviale vergine e quasi incontaminata dove vivono gli ultimi leopardi nebulosi del Borneo, oranghi, i loris lenti ed 8 rare specie di bucero, ma le concessioni forestali e minerarie hanno intaccato l'habitat di queste e di altre migliaia di specie autoctone, causando già danni irreparabili alle torbiere, un ambiente che si sta rivelando sempre più essenziale per la biodiversità ed i servizi ecosistemici.

Per difendere tutto questo da mesi le tribù penan stanno attuando blocchi stradali e creano barriere con pneumatici incendiati per impedire ai gradi camion di raggiungere al mega sito di Murum, nel cuore del Sarawak, che entro il 2013 dovrebbe diventare la più grande diga idroelettrica della Malaysia. Uno dei campi dei manifestanti che infastidisce più la Ctgc ed il governo malese è quello realizzato a Seping River Bridge, a 40 km dalla diga, dove numerosi "sulap', le capanne penang coperte di zenzero selvatico, foglie di palma e teli di plastica, ostruiscono la strada. Anche gli abitanti dei villaggi hanno intensificato la lotta, bloccando l'altra unica via di accesso alla diga: con le due strade principali bloccate i lavori si sono fermati fino a quando i cinesi non hanno realizzato un altro percorso attraverso il fiume per far passare i lavoratori con i "tungkang" (traghetti) e utilizzano rimorchiatori per il trasporto del materiale.

La rivolta penang, capeggiata dagli anziani della tribù, a provocato un serio scontro con il governo ed il capo della polizia, DSP Bakar Sebau, ha minacciato di arrestare  tutti per riunione illegale ed incitamento alla rivolta, ma l'Ong Sarawak conservation alliance for natural environment (Sscane) ha accusato Sebau di minacciare i Penang con le armi e di trattarli come se non fossero esseri umani.

La diga di Morum è ormai completata per il 75%, ma i risultati del Social environmental impact assessment i (Seia) e ed il Resettlement action plan (Rap) sono "riservati". Secondo Mark Bujang, portavoce di Save Rivers, «Il rapporto Seia arriverà troppo tardi per il Penan. Avrebbe dovuto essere rilasciato tre anni fa, prima ancora di iniziare la costruzione ed è stato fatto in modo da guardare solo all'impatto del reinsediamento e non della diga stessa». La Sarawak Energy respinge le accuse di Bujang e assicura di aver consultato le tribù fin dal 2009. Ma i penan ribattono di aver detto che avrebbero accettato il reinsediamento  solo se avesse previsto la concessione di 25 ettari di terreno ed un risarcimento di 500.000 ringgit (1.000 sterline) in contanti per ciascuna delle 300 famiglie scacciate dalla costruzione diga, più 30.000 ettari di terreno a ciascuno dei 9 villaggi, un fondo per l'istruzione dei  loro figli ed un ulteriore fondo per lo sviluppo della comunità. Inoltre i penan chiedono che siano garantiti loro i diritti sule terre che non verranno inondate, comprese le isole che farà nascere il bacino artificiale della diga.

Secondo la legge malese, le popolazioni indigene che rivendicano diritti territoriali devono fornire la prova che utilizzavano quelle terre prima del 1958. Per una cultura come quella penan, che non ha praticamente documenti scritti, questa è una cosa tutt'altro che semplice. Un tribunale di Sarawak, in una sentenza del 2001 considerata come un precedente, ha stabilito che era possibile includere le foreste tra i diritti territoriali indigeni, questo ha fatto sperare ai penan che le loro richieste saranno accolte. Ma se i penan riusciranno a far valere i diritti sulla loro terra ancestrale con la lotta e il ricorso ai tribunali, avranno bisogno di mappe per documentare i confini del loro territorio. Il Fondo Bruno Manser, dedicato ad un noto attivista svizzero scomparso nelle foreste del Borneo, sostiene i Penan con attrezzature moderne, in modo che possano produrre questi dati. La mappatura viene realizzata utilizzando dispositivi Gps e con team di mappatura appositamente addestrati provenienti da vari villaggi che mappano i confini tribali basandosi su emergenze naturali e siti culturali, come le tombe, insediamenti abbandonati e accampamenti per la caccia. I dati vengono poi trasferiti sulle mappe e confrontati con le immagini satellitari. Così si è scoperto e documentato anche dove le compagnie del legname hanno aperto strade nella foresta vergine dei penan e dove questa è ancora intatta. Grazie al sostegno finanziario di un privato, è ora possibile mappare più villaggi più ed il capo nomade, Along Sega sottolinea: «Abbiamo bisogno di queste mappe per i negoziati con il governo e con le persone che si trasferiscono nel nostro territorio dall'esterno. Queste mappe sono per le persone che non hanno familiarità con la nostra terra».

Sono già stati mappati i territori di 19 villaggi e gruppi di nomadi, per una superficie complessiva di 2.550 Km2, ma per 4 villaggi il contenzioso territoriale è pendente davanti in tribunale dal 1998, mentre altre due tribù penan stanno avviando un'azione legale contro il governo del Sarawak e diverse compagnie del legname. Una battaglia che ha portato comunque ad un sostanziale blocco delle concessioni nei territori contesi. Il Bruno Manser Fund e i capi tribù stanno mettendo insieme gli elementi di prova per dimostrare che i penan vivono nella foresta da centinaia di anni: testimonianze dei penan più anziani, ma anche di scienziati, missionari e funzionari dell'ex amministrazione coloniale britannica. Uno studio etno-botanico organizzata dal Fondo Bruno Manser punta a dimostrare che i penan utilizzano da tempo immemorabile gli alberi nei territori forestali, per esempio per costruire le cerbottane che utilizzano per cacciare.

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