[05/09/2012] News

Zygmunt Bauman e ‘a livella che non c’è

In ultima battuta, alla fine del lavoro ci stiamo avvicinando, ma non come forse speravamo. La "fine della schiavitù" della produzione di beni materiali, la "liberazione dall'ossessione del lavoro" data dall'evoluzione tecnologica, ha inizialmente interessato le economie occidentali. Riguarda ora progressivamente anche le industrie dei Paesi in via di sviluppo, dove la produzione si è in gran parte spostata con la globalizzazione: è con lo scopo di «ridurre i costi crescenti del lavoro e migliorare l'efficienza» che il gigante taiwanese dell'elettronica Foxconn - quello dei componenti Apple, per intenderci - ha ormai da tempo annunciato l'intenzione di portare le proprie fabbriche ad essere popolate entro due anni da 1 milione di robot.

Quei robot dovranno essere progettati, assemblati, trasportati, installati. Tutte operazioni che richiedono comunque manodopera, ma alla fine del processo il saldo degli occupati non sarà positivo. Di per sé, l'avanzare della tecnologia nell'industria non è certo un segnale negativo, anzi. È però un cambiamento enorme, e sempre più veloce, che occorre governare. Altrimenti il risultato continuerà ad essere (in peggio) quello che già si sta profilando: non più tempo libero, una liberazione dall'ossessione del lavoro, ma una liberazione dal lavoro e basta. I mutamenti del mercato possono essere la chiave per un progresso della società tutta (se mai ci accorderemo su come definirlo, questo progresso), ma anche sotto la legge della domanda e dell'offerta si mietono delle vittime. Tante. Aiutare chi rimane indietro rientra tra gli oneri delle regole pubbliche, che il cambiamento dovrebbero guidare.

Ma chi sente ancora il dovere di prendere posizione perché queste regole vengano scritte? In effetti, potrebbe essere molto più comodo divertirsi a cavalcare l'onda. Una crescente categoria di questi surfisti viene messa bene in evidenza dal sempreverde Zygmunt Bauman (Nella foto), sociologo polacco classe 1925. Del suo prossimo volume - Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido, in libreria da domani - la Repubblica anticipa oggi un estratto dal significativo titolo "Senza regole". Lo spunto su cui riflette Bauman è quello offerto dal sito locationindependent.com, messo in piedi dai coniugi Lea e Jonathan Woodward, liberi professionisti "nomadi" ("location indipendent", appunto), che scrivono: «Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? [...] A noi questa idea non andava - e se non va neanche a te sei finito nel posto giusto».

Riassumendo, il Woodward-pensiero sembra essere che loro stanno bene così. Le regole del cambiamento non sembrano così importanti, perché la ruota della fortuna è stata clemente. Buon per loro, ma il punto è che non tutti possono ritenersi altrettanto fortunati, e che all'improvviso sparissero tutte le regole («A noi questa idea non andava», e a te?) probabilmente neppure i Woodward sarebbero più così felici. L'unica vita senza regole è la vita della jungla, dove l'unica legge è quella del più forte.

Si può e si deve discutere su quali regole promuovere, come adottarle, ma tirarci semplicemente una riga sopra è una tentazione nella quale davvero non cadere, un'altra manifestazione - come scrive Bauman - di «quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell'"inizieremo a preoccuparcene quando accadrà"», del «godi subito e paga dopo». «L'ordine dell'egoismo» contro «l'ordine della solidarietà».

Per tutti coloro (ossia la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) che non possono letteralmente permettersi di essere novelli Lea e Jonathan, lo stile Woodward «confermerebbe - chiosa Bauman - una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L'assenza più cospicua sarebbe quella delle "classi colte" a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati».

Si scopre così una volta di più che la crisi non è ‘a livella, prendendo a prestito dal grande Totò. Non è una livella, e al contrario della morte, non è neanche una fatalità ineluttabile. L'ampliarsi progressivo delle disuguaglianze economiche e sociali dimostra che questa, per molti, è solo un'occasione in più per provare ad accaparrarsi una fetta più grossa della torta dell'economia. Per remare contro, per riappropiarsi della capacità e del dovere di scrivere regole è necessario riconoscere come questo sia un compito politico e collettivo, ma nel quale si riscontrano riflessi squisitamente individuali. Ognuno rappresenta una scheggia di responsabilità da far valere, e lasciarla cadere è una scelta. «A noi questa idea non andava», e a te?

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