[02/08/2012] News

La carta del Pd è "ecologica", ma agli intenti devono seguire i fatti

A noi che non  abbiamo nostalgia di "cari leader", ma piuttosto di programmi da discutere e speriamo da condividere, se il buongiorno si vede dagli intenti la Carta presentata dal Pd non dispiace affatto. E non solo perché si parla esplicitamente di sviluppo sostenibile e di «una politica industriale "integralmente ecologica"» questione dirimente ma di cui parliamo dopo. Bensì per l'impostazione generale fissata su quei due livelli - europeo e nazionale - che sono a nostro avviso i cardini sui quali costruire appunto un programma di sinistra.

Non c'è futuro senza Europa e non c'è futuro senza che nell'Europa che vogliamo l'Italia non ritrovi un ruolo che, senza l'aiuto di nessuno se non di se stessa, sappia darsi. Il sostegno a Monti, se (se) avrà un merito, sarà proprio quello di traghettarci in una situazione più favorevole finanziariamente parlando che ci permetta di - insieme a quella parte di Europa che condivide l'analisi e pensiamo a Hollande in testa - rovesciare il sistema di potere che ci vede tragicamente succubi dei mercati speculativi a colpi di spread e di segni meno al rating. Se non si può uscire da alcune logiche dei mercati, si può uscire da quelle meramente speculative e depauperanti moralmente, socialmente e ambientalmente dei mercati finanziari degli ultimi trent'anni. E in questo senso Bersani, qui parliamo della persona, ha un altro merito: quello dell'autocritica.

Come ha detto durante l'incontro con filosofi e intellettuali qualche giorno fa (vedi link), un incontro che si potrebbe quasi dire propedeutico alla presentazione della Carta degli Intenti,  il pensiero mainstream della destra che ci ha portato dove ci ha portato - ovvero alle soglie del baratro - per poi trovare argomenti assurdi per «concludere che non è stata colpa loro!» ha messo in mostra un altro aspettato altrettanto nodale: «questo accade mentre sull'altro fronte - quello nostro, della "sinistra" - si fatica a individuare un altro modello, anche se con dei passi in avanti soprattutto nel campo del progressismo europeo. E però ci ritroviamo a non disporre ancora di un pensiero, in larga parte originale, di fronte a quella che un tempo avremmo chiamato una "transizione di egemonia". In questa fase delicata (come sospesa tra il "non più" e il "non ancora") s'incastrano le spinte più pericolose: il riarmo dei nazionalismi. O populismi di estrazione diversa, ma che poi tendono a piegare sempre sul fianco destro. In qualche modo la stessa utopia di un'Europa integrata, non solo nella moneta, oggi sembra chiusa dentro questa morsa.

Ed è una situazione drammatica che chiede alla politica di gestire l'emergenza (dagli spread al debito, alle strategie anti-cicliche, che poi è il fondamento del nostro sostegno a Monti). Ma chiede alla cultura - in particolare a discipline diverse dall'economia - di assumere una parte della fatica nell'immaginare una via di uscita possibile».

Ma Baersani dice dell'altro: «Credo sia importante, anche per la politica, che nel cuore della transizione si torni a valorizzare l'eredità culturale e filosofica del paese. Ora, se è così, l'Europa - la moderata utopia degli Stati Uniti d'Europa - starebbe lì a confermare il bisogno di attingere a discipline che la stagione più recente ha teso a mettere ai margini. Ed è ciò che impone alle culture politiche di accantonare un primato del programmismo recuperando una visione di più ampio respiro, sia nel suo supporto scientifico che nel suo impianto umanistico. Naturalmente, noi siamo il primo partito del paese e la politica, intesa come esercizio trasparente e regolato del potere, deve risolvere i problemi. E però mi chiedo se un'eccessiva divaricazione delle due sfere - detto in modo rozzo: della politica e del pensiero - non sia riapparsa in tempi recenti anche a causa di una rimozione delle alternative possibili. Quasi che il mondo quello fosse, e nulla e nessuno potessero scostarsi dal suo corso. Nella versione migliore la ricaduta è stata il venire avanti di una soluzione solo apparentemente neutra - tecnica o tecnocratica - per snodi complessi nel governo di società che, al contrario, avevano e hanno bisogno di una più chiara definizione delle parti. E dunque di culture politiche, e di partiti, in grado di definirsi: indicando le forze reali della società e gli interessi che intendono promuovere. In questo senso, ridurre l'ampiezza delle opzioni nel governo dell'economia e della cittadinanza ha reso la democrazia più fragile e vulnerabile. E quindi l'interrogativo è se non si debba - e come - lavorare per riconnettere questi principi: riabilitare la partecipazione e il conflitto; puntare a un assetto costituzionale riconosciuto e funzionale; ricostruire l'etica pubblica in un paese, su questo piano, letteralmente devastato. Ma soprattutto, mettere al centro la prospettiva di un'integrazione politica e federale dell'Europa. Che poi è la prova di questo tempo. Dunque accettare la vera sfida, che è restituire a un popolo europeo la coscienza delle sue radici e di un suo ruolo nell'Occidente e nel mondo. Insomma non sarà la Bce a restituire un'anima all'Europa».

Ecco dove siamo, dunque, all'assenza di vera alternativa. Aver azzeccato l'analisi, però, fa la differenza. Se siamo qui è perché ora dobbiamo costruire questa alternativa e la Carta degli Intenti, se piace pure a Vendola tanto meglio, può in tempi ragionevoli essere il canovaccio su cui costruire una strada (visto che di modelli non ne ha funzionato uno) diversa che abbia il centro nella sostenibilità intesa come migliore riproduzione delle risorse tutte. In primis quella della natura senza la quale non è possibile quella umana. E' giusto quindi affermare che «Dobbiamo sconfiggere l'ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando.

E' una strada che l'Italia ha già percorso, e sempre con esiti disastrosi. In democrazia ci sono due modi di concepire il potere. Usare il consenso per governare bene. Oppure usare il governo per aumentare il consenso. La prima è la via del riformismo. La seconda è la scorciatoia di tutti i populismi e si traduce in una paralisi della decisione». E' infatti per questo che a noi, ma non solo a noi crediamo, interessa veramente poco il dibattito sulle primarie. Non ci sarà mai uno che ci "guiderà", ma è possibile che ci sia quale organizzazione ci diamo per questo obiettivo del terzo millennio: la sostenibilità, appunto. E se questo programma è investire sull'istruzione, sulla cultura, dentro un nuovo welfare, per un lavoro di qualità attraverso una politica industriale "integralmente ecologica", noi ci stiamo. Perché anche per noi «sviluppo sostenibile vuol dire valorizzare la carta più importante che possiamo giocare nella globalizzazione, quella del saper fare italiano» perché «sarebbe sciocco pensare che nel mondo nuovo l'Italia possa inseguire nazioni molto più grandi e popolose di noi. Se una chance abbiamo, è quella di una Italia che sappia fare l'Italia. Da sempre la nostra forza è stata quella di trasformare con il gusto, la duttilità, la tecnica e la creatività, materie prime spesso acquistate

all'estero. O di usare al meglio il nostro territorio, che non è solo arte e bellezza naturale, ma bacino di risorse, creatività, talento». Ecco poi noi aggiungiamo che oltre alla «qualità e le tipicità, mobilità sostenibile, risparmio ed efficienza energetica, le scienze della vita, le tecnologie legate all'arte, alla cultura e ai beni di valore storico, l'agenda digitale, le alte tecnologie della nostra tradizione» serva investire sul riciclo e sulla manutenzione del territorio, che se sono sottoinsiemi delle "intenzioni" generali è bene invece esplicitarli. Certo, c'è molto da fare, ma per una volta dopo tanti anni (nel 2001 il partito di Bersani negava perfino la possibilità di orientare l'economia) abbiamo davanti idee sufficientemente chiare sulle quali confrontarci. 

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