[19/07/2012] News

Il Don Chisciotte dei mercati: Monti in guerra contro mulini a vento della finanza

Rimangono le parole scandite dal premier Mario Monti all'assemblea dell'Associazione bancaria italiana a dettare il passo della politica italiana di questi giorni, nell'allarme che cresce all'avvicinarsi di agosto, indicato come possibile mese terribile per la carica della speculazione finanziaria contro l'Italia, grimaldello prediletto d'accesso all'eurozona. L'Italia ha intrapreso «un percorso di guerra durissimo che non è ancora finito». Una metafora forte, quella della guerra, ma che rispecchia bene l'urgenza (e, in parte, i danni) della crisi socio-economica che viviamo, e che - avverte oggi l'Fmi - in Europa si sta «intensificando», invece di allentare la presa. Rimane però un paragone scivoloso, quello col conflitto bellico, e da ficcante che è può scivolare in facili strumentalizzazioni.

«Non si fanno guerre contro "cose" impersonali come il debito pubblico, la disoccupazione, la stretta creditizia, il crollo dei consumi, i mercati speculativi, ecc. Contro queste cose - scrive Gustavo Zagrebelsky su La Repubblica - si fanno politiche, non guerre. Evocare scenari bellici significa strozzare le discussioni, alzare la tensione e chiedere compattezza ad ogni costo». È da un deficit politico, democratico, che nasce il tecnico bersagliere e la sua corsa, baionetta spuntata alla mano, contro i mercati sregolati.

A dirla tutta, non è neanche una corsa contro i mercati. I mulini a vento ruotano, e noi seguiamo la direzione delle folate. La guerra è fallimentare in partenza perché il territorio sulla quale viene combattuta non concede speranze: il potere è come l'aria calda, tende a salire verso l'alto, e gli stati nazionali si trovano ormai troppo in basso per esercitarvi una qualche significativa giurisdizione.

I risultati sono drammatici ed evidenti, e vanno oltre la recessione economica. A seguito dello scandalo Libor (che dalla Gran Bretagna si allarga a macchia d'olio nella rete bancaria internazionale), dalla Grande Mela il New York Times scrive che «Mercati più grandi permettono più grandi frodi. Compagnia più grandi, con bilanci più complessi, hanno più posti per nasconderli. E le banche, quando divengono abbastanza grandi perché nessun governo le lasci fallire, ne hanno il più grande incentivo di tutti gli altri». Come osserva su Project Syndicate addirittura Simon Johnson, ex capo economista dell'Fmi, «Dopo cinque anni (dall'inizio della crisi nel 2007, ndr) di scandali su grande scala nel settore finanziario mondiale, la pazienza si sta esaurendo».

«La lezione finale - continua l'economista del Mit - è che le grandi chiusure dei conti tra democrazia e grandi banchieri sono ancora a venire - sia negli Stati Uniti che in Europa. In superficie, le banche restano potenti, ma la loro legittimità continua a sgretolarsi». Non c'è da sperare che sia vero, ma i tempi della finanza sono ancora largamente dominanti sul terreno di gioco. «Banche e politica sono profondamente intrecciate in tutte le economie avanzate [...] Ma ciò che conta davvero è la legittimazione e un'opinione pubblica informata».

Se un novello Don Chisciotte rimane comunque impotente di fronte a taglienti mulini a vento, una nuova dignità politica e democratica può riuscire nell'ardua impresa di riprenderne il controllo per programmarne il movimento dall'interno, verso uno sviluppo reale e sostenibile. Pensare che la tecnica possa, sola, offrire una via d'uscita permanente porta solo alle critiche (fondate) del presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi: al governo «sono interessati ai mercati internazionali e sono forse un po' meno interessati alle sorti degli italiani e ai loro problemi». Alla faccia della tecnica portatrice di stabilità nella società civile.

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