[17/07/2012] News

La «sindrome circolare del rasoio elettrico», edizione 2.0: quando consumare č vivere

«L'umanità non tornerà nelle caverne o, piuttosto, agli alberi». Questa premessa accompagnava il programma minimo bioeconomico, illustrato dall'economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen - anticipatore della moderna economia ecologica - in una sua conferenza alla Yale University. Oltre che una premessa, l'assioma ha camminato dall'inizio sul filo di un rasoio. Potrebbe anche apparire come epitaffio dell'intero programma di Roegen, oltre a quello di tutte le altre correnti di pensiero che progettano una via d'uscita dalla società dei consumi, quella in cui dovremmo guarire dalla "sindrome circolare del rasoio elettrico" «che consiste nel radersi più velocemente, in maniera da avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e così via all'infinito».

Eppure, abbiamo scoperto che addirittura della merce (fittizia, da Karl Polanyi in poi) per eccellenza, il denaro, non abbiamo poi così bisogno: oltre una certa soglia di reddito (mediamente 75mila dollari per famiglia, negli Usa), la caccia allo stipendio non fa più la felicità ma anzi, toglie tempo ad altre attività più gratificanti. Al di sotto della soglia di sufficienza, certo, è tutta un'altra storia. L'Istat - a rischio di blocco attività da gennaio per i tagli alla ricerca, ricordiamolo - ha diffuso oggi i risultati del report aggiornato sulla povertà in Italia, comunicando che, su dati del 2011, l'11,1% delle famiglie risulta relativamente povero (per un totale di circa 8,1 milioni di persone) - la soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti, spiega l'Istat, è pari a 1.011,03 euro - mentre il 7,6% è a rischio povertà: quasi il 20% della popolazione italiana può dunque dirsi povera. Per queste realtà, il conto in banca è fondamentale eccome, ed è necessario fare tutto il possibile per favorirne una risalita dal profondo rosso in cui si è incuneato.

Il vero problema culturale è piuttosto il rifiuto nell'abbandonare modalità di consumo e di arricchimento che risultano in definitiva socialmente, ecologicamente ed economicamente insostenibili. L'essere umano è un formidabile camaleonte, che fa della capacità di adattamento un suo grande punto di forza; è per noi però molto più rapido e semplice «adattarsi ad un miglioramento che non ad un peggioramento», come certifica Daniel Kahneman (anche se forse la ratifica di un premio Nobel non era necessaria). Ed è la cultura sociale che abbiamo creato, e nella quale siamo immersi, ad indurci facilmente a scambiare la nostra capacità di spesa - anche a debito, certo - con l'asticella della nostra felicità.

«Qualche guru prevede nel prossimo futuro una svalutazione sociale del denaro, con cambiamenti drastici nei modelli di consumo - afferma il sociologo Carlo Carboni dalle colonne del Sole24Ore - Non sarà cosi perché la finanza è entrata prepotentemente nelle geometrie delle nostre vite quotidiane, esattamente come la tecnologia. L'aspettativa è che ne vengano limitati e regolati gli eccessi», che sarebbe già tanto. Ma, come per la tecnologia - l'evoluzione esosomatica di cui parlava Roegen - possiamo comprendere che rinunciare a quella fetta che non crea reale benessere sociale ed individuale non è peccato, anzi: ecco buona parte della rivoluzione culturale tanto invocata.

Una rivoluzione che (come quasi sempre) non è altro che il riadattamento di pensieri antichi, in questo caso esplicitati a suo tempo dall'antropologo Karl Polanyi ne il suo La grande trasformazione: «L'uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli valuta i suoi beni materiali soltanto nella misura in cui essi servono a questo fine [...] Questi interessi saranno molto diversi in una piccola comunità di cacciatori o di pescatori rispetto a quelli che troviamo in una vasta società dispotica, ma in ambedue i casi il sistema funzionerà sulla base di motivi non economici». Magari non sarà necessario tornare a «vivere nelle caverne, o piuttosto sugli alberi», per rammentarcene.

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