[12/06/2012] News

Incentivi alla ricerca per l'industria, un flop anche il nuovo decreto?

Prendiamo il caso del fotovoltaico. Negli ultimi anni la fonte rinnovabile di energia ha dato luogo a un'economia "booming". L'Italia ha speso oltre 10 miliardi di euro in impianti per il solare fotovoltaico. Ottima notizia per l'ecologia. Non altrettanto per l'economia. I pannelli, infatti, li abbiamo acquistati quasi tutti all'estero (o su licenza straniera). Cosicché quei 10 miliardi sono andati a pesare sulla nostra bilancia dei pagamenti. Perché? Semplice. Al contrario della Germania o della Cina o della Corea, non abbiamo sviluppato la tecnologia fotovoltaica.

La vicenda del fotovoltaico è emblematica dell'intera economia hi-tech dell'Italia. La importiamo quasi sempre dall'estero, perché le nostra pur imponente industria manifatturiera ha una specializzazione produttiva nelle basse e medie tecnologie. Proprio lì dove da almeno venti anni subiamo la concorrenza del basso costo del lavoro e della competitività della moneta dei paesi a economia emergente.

Come mai non produciamo hi-tech? Anche questa domanda ammette una risposta semplice. I motivi sono due. Il primo è che le nostre imprese non investono in ricerca e sviluppo (R&S) e non sono capaci di innovare i prodotti: a parità di fatturato, un'industria italiana investe in R&S fino all'80% in meno di un'industria americana. Il secondo è che non riusciamo ad attrarre industrie straniere dell'hi-tech: tra il 2005 e il 2011, ricordava ieri Il Sole 24 Ore, gli investimenti esteri in Italia sono stati pari a 22 miliardi di euro, contro i 61 miliardi della Francia e i 116 della Gran Bretagna.

La diagnosi contiene in sé la terapia. Dobbiamo incentivare la produzione hi-tech in Italia da parte di imprese italiane e/o straniere, attraverso un incremento degli investimenti industriali in R&S. Come? Uno degli strumenti più utilizzati in tutti i paesi sono i crediti di imposta e, in ogni caso, le facilitazioni fiscali.

Anche qui dobbiamo scontare un formidabile gap rispetto agli altri paesi,  europei ed extraeuropei. Per esempio: la Francia dedica ogni anno ai crediti d'imposta 5 miliardi. Noi, per il quadriennio compreso tra il 2011 e il 2014, abbiamo messo in budget 120 milioni l'anno (per un totale di 484 milioni): 42 volte in meno. Con queste cifre poche imprese italiana si sentono incentivate a fare ricerca e nessuna impresa straniera avverte una qualche forza di attrazione a venire nel nostro paese.

Dovrebbe porre rimedio, almeno in parte, a questa situazione il decreto sviluppo del governo. Ma, è notizia di ieri, al culmine del braccio di ferro tra il Ministero dello Sviluppo di Corrado Passera e la Ragioneria dello Stato, la montagna aver generato il topolino. Il budget è limitato a 25 milioni per il 2012 e a 50 milioni per il 2013 (per intenderci, tra lo 0,5 e l'1% di quanto investono in Francia).

L'idea iniziale era quella di attribuire un bonus della ricerca pari al 100% degli investimenti, fino a un massimale di 300.000 euro. Ma ieri il bonus è stato ridimensionato: verrà assegnato solo alle imprese che assumeranno giovani qualificati di età inferiore ai 35 anni, coprirà al massimo il 50% degli investimenti in ricerca e avrà un massimale di soli 100.000 euro.

Difficile, con queste cifre, modificare la situazione. Non è l'impressione del vostro modesto cronista. È un'analisi comparata con quanto succede all'estero a dircelo. Nella solita Francia è previsto un credito d'imposta del 40% il primo anno e del  35% per il secondo anno fino a 100 milioni di investimenti (in un anno, un'impresa può dunque ricevere, fino a 40 milioni), cui è possibile aggiungere un credito d'imposta del 5% per investimenti superiori a 100 milioni.

Ma non c'è solo la Francia, in Europa. In Spagna sono previste crediti d'imposta fino al 42% degli investimenti e in Gran Bretagna superdeduzioni che salgono addirittura fino al 130% (si comprende perché gli investitori stranieri corrano verso il Regno Unito, invece che verso l'Italia).

Ma sono i paesi a economia emergente che operano una concorrenza sfrenata. In Russia e in Cina la superdeduzione sale ancora rispetto alla generosa Gran Bretagna: fino al 150%. Il Brasile rilancia col 160% e l'India offre il 200%.

Sarà anche concorrenza sleale. Ma una cosa è certa. Il paesi del Bric - cui bisogna aggiungere il Sud Africa e tutte le ormai vecchie "tigri asiatiche" (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, ecc.) - hanno compreso che per rendere stabile il loro formidabile sviluppo economico recente non si può puntare (non più solo, almeno) sul basso costo del lavoro e sul dumping dei diritti, ma occorre acquisire la capacità di competere nei settori strategici dell'alta tecnologia. Incentivando la ricerca scientifica, che ne è la premessa.

In Italia, come dimostra la nuova bozza del decreto sviluppo del governo, questa consapevolezza non è ancora maturata.

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