[29/05/2012] News

L'America altrove. Se gli immigrati «sporchi e cattivi» fuggono dall'Italia

Bauman: «E' questo sistema che deve continuare a produrre lavoratori in sovrappiù»

Noi italiani pecchiamo spesso di esterofilia. La tentazione di vedere sempre l'erba del vicino più verde di quella che rallegra il nostro giardino sembra insita nel nostro Dna. Storicamente, però, le grandi ondate di migranti italiani che, a singhiozzo, si sono susseguite dal tramonto del XIX secolo fino al secondo dopoguerra, hanno lasciato in eredità al resto del mondo circa 80 milioni - dati della Fondazione Migrantes - di oriundi italiani (concentrati soprattutto in Brasile, Argentina e Usa), un terzo in più dell'attuale popolazione italiana nel suo complesso.

Per i nostri conterranei, fino a pochi decenni fa, partire per un altro Paese significava armarsi di una valigia di speranza ed approdare in quella che si credeva "l'America", intendendo con questo termine non soltanto il territorio Usa, ma più semplicemente un mondo nuovo, diverso e carico di possibilità, lontano dalla mestizia della madrepatria. Da parte nostra, lo Stivale ha sempre accolto una frazione minoritaria del totale degli immigrati in Europa - al contrario del comune sentire degli italiani - ma la comunità straniera si è comunque ritagliata col tempo un ruolo di primo piano nella nostra struttura sociale. Tanto da non poterne più fare a meno (il che, tra l'altro, non avrebbe alcun senso, all'interno di un mondo sempre più globalizzato).

Zygmunt Bauman, all'interno della sua conferenza tenutasi in occasione del Festival Dialoghi sull'uomo, ha snocciolato come «secondo i dati ufficiali a disposizione, si calcola che l'11% del Pil italiano dipenda da lavoratori immigrati. Considerando però il fenomeno dell'immigrazione illegale, questa percentuale sarebbe probabilmente più alta. Dovremmo abituarci a vivere con persone che definiamo diverse, e potremo collaborare con loro se queste rinunceranno a una parte della loro identità, come noi dovremmo essere pronti a difendere la nostra solo collaborando con loro».

Proprio sul fronte della collaborazione, però, esistono ancora troppe lacune da colmare. Dalla ricerca Valutazione del ruolo dei media nella riflessione della diversità e promozione dell'integrazione dei migranti - condotta dal Robert Schumann Centre for Advanced Studies dell'Istituto Universitario Europeo di Firenze nell'ambito del progetto Mediva (Media per la diversità e l'integrazione dei migranti) - risulta che i migranti «Occupano uno spazio marginale sul totale delle notizie: nemmeno il 2%. I media tendono ad alimentare l'opposizione tra un "noi buoni" e un "loro cattivi". I migranti sono il più delle volte rappresentati come gruppo piuttosto che come singole persone, gruppi cui si attribuiscono caratteristiche minacciose o si associano problemi, in particolare crimini e conflitti».

Il risultato di questa situazione, con la forte complicità del prolungarsi della crisi economica (che, come sempre, colpisce con più forza le fasce più deboli della popolazione, e quindi anche la maggioranza dei migranti), è che - come riporta oggi il Sole24Ore - sono stati «28mila i cittadini stranieri che nel corso del 2010 hanno cancellato la residenza per trasferirsi all'estero. Secondo uno studio della Fodazione Ismu su dati Istat, si tratta del più forte aumento dei trasferimenti verso l'estero in tempi assoluti con valori ormai più che tripli rispetto ai periodi pre-crisi». Una fetta rilevante di migranti decide così di tornare a casa, o di migrare in Paesi europei più accoglienti: «Le mete più ambite sono Francia e Belgio».

Le conseguenze del processo di diasporizzazione nel suo complesso, spiega ancora Bauman, «sono estremamente vaste». Qualcuno ventila inappropriatamente di chiudere le frontiere europee, ma «La chiusura dei cancelli la reputo impossibile - continua il sociologo anglo-polacco -  perché sarebbero le imprese stesse ad impedirla. La globalizzazione genera un'interdipendenza generalizzata tra le varie parti del mondo. Il business ha bisogno di poter contare su una certa forza lavoro a prezzo relativamente basso, e dunque un certo numero di lavoratori stranieri sono necessari a questo sistema, che deve continuare a produrre un certo numero di lavoratori in sovrappiù, che migreranno solo dove sono disponibili acqua, cibo, servizi sociali accettabili. Se l'Unione Europea nei prossimi 40 anni non accetterà l'ingresso di 30 milioni di immigrati la nostra popolazione si dimezzerà, scendendo sotto un livello necessario per mantenere lo standard di vita che desideriamo e al quale siamo abituati».

Ecco che, come tante sfide di fronte alle quali l'emergenza della crisi ci pone di fronte con forza, il nodo dei migranti potrà divenire da un problema una risorsa solo se vi verranno dedicate le giuste attenzioni e concrete energie. Per una riconversione ecologica dell'economia sarà infatti necessario anche l'apporto della manodopera straniera, che continuerà ad essere decisiva per l'economia italiana. Dovrà rappresentare una forza lavoro maggiormente istruita ed integrata per poter dare un contributo significativo a tale processo di riconversione, ed è questa un'occasione che non possiamo lasciarci sfuggire.

Ricordando l'ammirazione di Hannah Arendt per l'illuminista tedesco Lessing, Zygmunt Bauman afferma come questi «Fu l'unico illuminista tedesco a dire che la diversità del genere umano è destinata a persistere nel tempo, mentre gli altri illuministi credevano in un unico modalità di essere un essere umano, che sarebbe stato pian piano raggiunta da tutti; Lessing era dunque coraggioso per le sue affermazioni. Soprattutto, però, era contento di questo stato delle cose, di questa sua previsione: era una visione che gli dava un profondo compiacimento. Vedeva la diversità come fondamento della stupefacente creatività del genere umano». Dovremmo ricordarlo anche noi.

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