[25/05/2012] News

Luigi Zoja a greenreport: «Solo un’economia maniacale insegue la crescita assoluta»

Le speranze per un'ecologia culturale? Educazione e istruzione

Si alza oggi il sipario su Dialoghi sull'uomo, il Festival dell'antropologia contemporanea che, ideato e diretto da Giulia Cogoli, ravviverà con fermento intellettuale la cittadina toscana di Pistoia per il terzo anno consecutivo, riunendo spettatori e pensatori di ogni risma per confrontarsi attorno al tema del dono, uniti dallo slogan Dono, dunque siamo. Donare, scambiare, condividere per una società più equa.

Un tema coraggioso da affrontare - quello del dono - in tempo di crisi e ristrettezze, soprattutto in un contesto all'interno del quale il moderno uomo della società del consumo è abituato ad attribuire un prezzo a tutto ciò che tocca e vede, e molto spesso sceglie di fare passi falsi pur di entrarne in geloso possesso (magari per gettarlo via subito dopo).

Ad aprire le danze del Festival sarà quest'anno Luigi Zoja (Nella foto), laureato in economia alla Bocconi e psicanalista di fama internazionale, il cui intervento dal titolo Dono e obbligo. Una riflessione sul contributo sociale (Poiché nella vita collettiva l'economia ha oggi il posto centrale, un tempo occupato dalla religione, le finanze pubbliche costituiscono un perno dell'equilibrio sociale, si legge nell'abstract sul sito dei Dialoghi) è previsto per le 17:30 in piazza del Duomo, a Pistoia, gratuitamente accessibile. Proprio per una riflessione su questi temi, greenreport ha contattato Zoja per un'intervista alle porte del Festival.

Quale funzione, anche psicologica, occupa il fenomeno del dono all'interno della società?

«La parola dono ha la stessa origine etimologica di dare, sia spontaneamente che sotto costrizione. Tuttavia, parlando di dono la prima immagine che solitamente balza in mente all'uomo medio è quella del regalo superfluo e superficiale, comprato in occasione di una qualche festività commercializzata. Anche tra il pubblico e i conferenzieri che animeranno Dialoghi sull'uomo - che pure rappresentano una frazione minoritaria della società italiana, possiamo dire quella più socialmente impegnata - prevalentemente il dono non viene esplorato come qualcosa di essenziale all'equilibrio psichico del donante. In noi, invece, esiste una propensione istintiva a donare, a partecipare all'attività sociale. Già la paleoantropologia spiega che, fin dalle nostre origini "animali" siamo così. Ci siamo evoluti per vivere in piccole comunità come i nostri cugini, le scimmie: noi abbiamo inventato il villaggio, il fuoco, tutte cose per ottenere le quali si doveva lavorare in comune. Il dono, nella piccola comunità, fa sentire meglio non solo chi riceve, ma anche chi dona. Dobbiamo riflettere su come mai questo legame è andato perso».

Quella del donare può essere definita come un'istanza archetipica dell'essere umano? E, se sì, come vi si relazione l'attuale società di individui atomizzati?

«Assolutamente sì. È una nostra istanza archetipica che, soppressa, come sempre risorge in altra forma, in questo caso non in modo distorto ma sotto forma di un desiderio di volontariato, il cui richiamo è in aumento nella nostra società, nonostante il bene più scarso per l'uomo del XXI secolo sia proprio il tempo libero. Apparentemente vi è un paradosso nell'abbinamento tra l'evasione fiscale in crescita ed il desiderio di affidare denaro alle varie Onlus per inviarlo, ad esempio, come aiuto nel terzo mondo; emerge però in questo una certa razionalità, perché pagando le tasse allo stato centrale l'uomo medio ha timore che queste si perdano in un mare magnum, o magari vengano indirizzate ad aiutare le banche. Tutte cose che il cittadino comune vede distanti, senza un legame emotivo con la propria persona, o non approva».

Tramite il dono si instaura un rapporto tra l'individuo e la collettività, come nel caso delle tasse (e, appunto, la loro relativa - possibile - evasione). Un filo conduttore lega queste due forme di relazione sociale?

«Il nodo delle tasse non lo sentiamo più assolutamente come dono, questo è il problema. Di fatto, il sistema italiano, come quello di quasi tutti gli altri Stati, funziona vietando le tasse di scopo: tu paghi la tassa, e tutto va nel calderone. Con tutto questo, noi siamo sempre più lontani dal vedere il volto della persona che andiamo ad aiutare con i nostri soldi. Uno dei principi che guidano la strategia di comunicazione delle Onlus, basandosi su semplici studi psicologici, è quello di affidarsi al voto di un solo bambino affamato come simbolo al quale devolvere il proprio denaro. Infatti, la psicologia insegna che nell'osservare il volto di un bambino sofferente ti commuovi, se invece utilizzi la foto di una folla questo non accade, o accade in misura minore. Per lo stesso principio, Stalin ebbe a dire che assassinare una persona è commettere un omicidio, ma assassinarne diecimila è una statistica.

Tornando al tema delle tasse, lo Stato chiede denaro ai contribuenti per uno scopo sociale, ma viene perso il collegamento con la relazione emotiva originaria che dovrebbe accompagnare il gesto: non possiamo non riflettere e dibattere su di questo, quando si parla di evasione fiscale. Per fare un esempio, in Svizzera come negli Stati Uniti esiste un'estrema delocalizzazione: noi spesso neanche ce ne rendiamo conto, ma lì l'autonomia della singola comunità è fortissima. Imbrogliare ed evadere le tasse è così più disincentivato, perché è più netta la sensazione di stare imbrogliando il prossimo: si ritrova meno freddezza e mancanza di emozione, in questo».

La religione del consumismo è la droga dell'uomo medio, «chi (come scrive nel suo volume Nascere non basta, ndr) ha fatto la scelta maniacale, producendo e consumando più di quanto ha bisogno». La logica della solidarietà e del dono possono scardinare questo circolo vizioso?

«No. Possono però permetterci di vivere e non soltanto di sopravvivere. Noi viviamo come un individuo costantemente inclinato in avanti, come un corridore che deve continuare a correre, a correre e a consumare, per non inciampare. Tutto questo era evidente già trent'anni fa. Anche in questo momento ci dicono che serve tornare alla crescita, per mandare avanti quest'economia maniacale. Ma crescita di che cosa? È necessario cominciare piuttosto a scegliere qualitativamente, anziché puntare alla crescita assoluta».

Si avverte il bisogno di un'ecologia innanzitutto culturale, che ricomponga l'economia psichica dell'individuo. Dove ripone le sue speranze in tal senso?

«Nell'educazione e l'istruzione, per esempio. Esistono anche segnali positivi in tal senso: malgrado tutte le profezie che affermavano come l'avvento dell'elettronica avrebbe progressivamente tolto spazio alla lettura, dati statistici disponibili per gli Usa parlano di come esista un segmento di lettori forti che, si, leggono molto su internet, ma anche molti libri. L'avvento degli ebook ipercompensa la lettura su carta, che è in calo, e complessivamente c'è una tendenza alla crescita in questo senso. Quindi, potrà apparire forse banale come risposta, ma le mie speranze le ripongo nel rapporto genitori-figli, nel cosa si impara a scuola o autonomamente, nella cultura».

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