[23/05/2012] News

Finanza & mercati vs democrazia: la variabile tempo fa venire il mal di testa anche a Obama

Il destino dell'Europa e il governo dell'economia

Stasera attorno al tema della crescita si giocherà l'ennesimo round della partita a scacchi che vede i leader europei confrontarsi su quello che, infine, risulterà essere il futuro dell'intera Unione Europea.  Con tutta probabilità da Bruxelles non uscirà oggi alcuna vera soluzione ai problemi europei, ma la speranza condivisa è che da qui possa partire un rapido cambio di rotta nella gestione politica della crisi, fino ad oggi incentrata prettamente su di uno sterile consolidamento dei bilanci pubblici. D'altronde, la posta in gioco è tremendamente alta, e sul vertice belga non verte solo la massima attenzione del Vecchio continente, ma anche di tutti gli altri Paesi del globo e, in particolare, dello storico interlocutore privilegiato dell'Europa: gli Stati Uniti.

Come riporta il Sole24Ore, il presidente a stelle e strisce è consapevole che la questione europea sia attualmente di difficile risoluzione politica, in quanto ruota attorno a «17 Paesi che debbono trovarsi d'accordo su ogni passo che si decide di intraprendere. E allora penso al mio unico Congresso, poi penso a 17 Congressi e devo dire che mi viene un certo mal di testa». Eppure, sottolinea Obama (Nella foto), «Io credo che alla fine sia molto importante che l'Europa riconosca che il suo problema riguarda qualcosa di più di una moneta. Ci deve essere un coordinamento effettivo sia sul piano fiscale che su quello monetario per un'agenda per la crescita occorre rafforzare il progetto europeo».

Un progetto sociale e politico, prima che economico, e un progetto che si trascina faticosamente dai tempi di Altiero Spinelli ed Alcide de Gasperi, all'alba di un'Unione Europea che non può essere ridotta a zona di libero scambio commerciale oliata da una moneta unica. Non lo chiedono solo, e con forza, tutti quei cittadini ancora consapevoli della comunanza europea delle proprie radici, ma la ragione e la pressione esercitata dal momento storico in cui ci troviamo a vivere. Anche il giornale di Confindustria riconosce che, alla fine, «una buona componente del problema è di natura psicologica», e la psicosi contro la quale si battono le democrazie di tutto il mondo è, in definitiva, quella della dittatura irrazionale delle multinazionali tentacolari e dei mercati finanziari.

Prendendo a prestito le parole dell'ex premier Romano Prodi, gli Stati nazionali sono immersi in un contesto di «sovranità limitata, dove si tassa solamente ciò che dalle tasse non può scappare: le politiche dei singoli Paesi hanno come obiettivo primario di evitare attacchi speculativi. Con l'ingigantimento dei mercati finanziari (che muovono cifre cento volte superiori alla dimensione dei beni reali), avvenuto in pochissimi anni, la speculazione ha assunto una forza tale che nessuno Stato nazionale può resistergli tranne Usa e Cina, cani così grandi che nessuno osa ancora morsicare».

Al di sotto di una soglia identificabile con gli Stati Uniti d'Europa, qualsivoglia azione di resistenza non potrà che avere effetti marginali. Solo riacquistando raggiungendo una massa critica sufficiente è infatti possibile pensare di agire con successo per fare quello che è necessario, ossia, ricondurre ai cittadini la possibilità di dettare democraticamente le regole del gioco.

Regole che al momento sono lasciate agli spiriti animali del mercato - si è visto con quali risultati - col fluire delle variabili fisiche e spaziali dell'economia (i flussi di materia e quelli di energia) lasciato in balia degli appetiti della speculazione. La possibilità di gestire tali variabili spaziali, d'altra parte, è strettamente legata al controllo dell'altra variabile essenziale, quella temporale. Mentre gli interessi della finanza hanno facoltà di muoversi a mille all'ora, i temi del controllo democratico sono ineludibilmente più lunghi: non potendo abbatterli, dunque, la soluzione sta nel rallentare quelli della finanza, riconducendoli sotto l'ala di una democrazia rafforzata e capace di reale sovranità.

Altrimenti, senza una qualche forma globale di governo dell'economia, che senso ha invocare la strada per uno sviluppo inclusivo e sostenibile? Un tale e necessario cambio di rotta presuppone dialogo, confronto e investimenti lungimiranti nell'economia reale, incompatibile con una visione a breve termine del profitto a tutti i costi. La crisi ci pone davanti a due alternative: affondare del tutto nel mare della nostra sregolata società del consumo, oppure riprendere in mano le redini del nostro destino finché siamo ancora in tempo a farlo. «In un mondo avanzato, tecnicamente e culturalmente evoluto - scrive il sociologo Magatti su la Repubblica - la politica stabilizza ciò che è instabile, fa permanere ciò che è contingente, radica ciò che è mobile». Possiamo ancora scegliere quale strada imboccare.

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