[23/05/2012] News

Crisi ecologica e crisi economica, una straordinaria opportunitą (1)

Pubblichiamo da oggi a puntate l'importante documento dei due storici ambientalisti in esclusiva per greenreport.it

Un'era nuova sembrava aprirsi all'inizio degli anni 90, quando la Conferenza di Rio de Janeiro svincolava dal recinto dell'ambientalismo per proiettarli all'attenzione dei governi di tutto il mondo i grandi temi della crisi ambientale, segnalando con particolare forza la questione dei cambiamenti climatici.

Diventava più chiaro che le alterazioni dei grandi cicli riproduttivi della natura, i cambiamenti globali e drammatici che iniziavano a registrarsi con sempre maggior intensità e frequenza non erano che l'altra faccia di un rapporto di distruzione delle risorse e di spoliazione della natura, operato in nome del profitto e di un livello di consumo cui i paesi forti non volevano rinunciare, pur nelle diseguaglianze che al loro interno continuavano a divaricarsi tra i diversi strati sociali, a scapito del Sud del mondo.

E l'energia diveniva poi, col Protocollo di Kyoto (1997), un tema sempre più cruciale e ineludibile, rivelando inoltre drammaticamente un termine alle grandi strategie industriali, alle decisioni politiche e ai destini del mondo globalizzato: il termine imposto dal tentativo di fronteggiare per tempo, se è possibile, il carattere repentino dei cambiamenti climatici connessi all'uso sempre più massivo dei combustibili fossili che alimentano ancora per oltre l'80% le economie del mondo.

Proprio pochi mesi dopo l'entrata in vigore del Protocollo (16 febbraio 2005), a segnalare l'urgenza che i governi ben comprendano il link energia/cambiamenti climatici provvedono le Accademie scientifiche dei Paesi del G8, più quelle di Cina, India, Brasile e Sud Africa, attraverso gli statement rivolti sia al G8 di Gleneagles (2005) che a quello di San Pietroburgo (2006).

In essi le Accademie affermano, con una sola voce, non solo che: "..there is now a strong evidence that a global warming is occurring.. It is likely that most of the warming in recent decades can be attributed to human activities..", ma, aggiungono in modo sostanzialmente perentorio, che: "..The scientific understanding of climate change is now sufficiently clear to justify nations taking prompt action." *
* Joint science academies' statement: Global response to climate change, 7 giugno 2005, reperibile online sul sito della Royal Society.

Successivamente, poi, la descrizione dei cambiamenti climatici diviene più complessa e drammatica, nei termini della rottura di stabilità dei fenomeni periodici propri del sistema fisico clima.
A rendere così decisa la comunità scientifica internazionale è stato anche un cambiamento fondamentale nella scienza del clima. Il rapporto "Abrupt Climate Change", pubblicato nel 2002 dal NRC della National Academy of Sciences degli Usa dopo un decennio di studi e di ricerche sul campo, disegna la storia del clima come fatta di bruschi cambiamenti che si inseriscono nelle variazioni ben più lente, sostanzialmente legate a fenomeni di carattere astronomico (spostamento dell'asse terrestre, cambiamento del piano dell'eclittica,...).

Emerge, in contrasto col punto di vista fino allora dominante, che l'atmosfera è un fattore di modificazione del clima. L'azione forzante in grado di modificare drasticamente il clima sta questa volta proprio nell'aumento in atmosfera della concentrazione di CO2, il gas "serra" maggioritario. Negli ultimi 650.000 anni, prima dell'era industriale, la concentrazione in atmosfera di CO2 non ha superato le 290 parti per milione a fronte delle 380 del 2002 (oggi 390); ma non è tanto il livello raggiunto, quanto il fatto che l'incremento negli ultimi cinquant'anni è stato uguale a quello che nella storia del clima richiedeva almeno 4000 anni!

Questa contrazione nel tempo di circa cento volte è una misura dell'azione forzante, che conduce dalla stabilità all'instabilità climatica: il rapporto mette al centro le sorprendenti nuove scoperte che improvvisi cambiamenti climatici possono accadere quando cause graduali portano il sistema terrestre al di là di una soglia, la soglia al di là della quale si ha la rottura della stabilità dei cicli climatici. E' il passaggio che stiamo già vivendo, infinite le prove sperimentalmente verificate, con drammatiche conseguenze.

Negli anni immediatamente successivi, la presa d'atto di questa realtà e la necessità di partire da essa per ogni nuova analisi e proposta che cerchi di dare risposte alle società del XXI secolo sembra procedere con sempre maggior intensità nei panel che riuniscono i potenti della Terra. E' l'Unione Europea a dare per prima il buon esempio fissando, nel marzo del 2007, gli obiettivi sulla riduzione della CO2 e sul risparmio energetico e sul ricorso alle fonti rinnovabili con gli ormai famosi tre 20% al 2020.

Con buona pace del coro di economisti che non ci avrebbero scommesso una lira, gli obiettivi UE diventano invece il punto di riferimento del dibattito di 195 governi di tutto il mondo, e sarebbe solo singolare assenza di senso storico o imperdonabile miopia misurare questa situazione secondo il criterio degli impegni per davvero assunti nei vari G qualcosa o nelle Conferenze delle Parti (CoP), cioè dei Paesi riconosciuti presso le Nazioni Unite. Si ha infatti a che fare con una trasformazione che ha di fronte a sé la massiva inerzia (interessi industriali, economici e finanziari; colossali infrastrutture; centinaia di milioni di occupati o dipendenti ecc.) di giganteschi sistemi energetici - petrolio, carbone, gas - e che deve compiere il suo primo e fondamentale passo in tempi incredibilmente stretti in rapporto alle sue dimensioni fattuali e sociali.

Un'istanza di razionalità globale
In ogni caso la ruota si era messa in moto. E' Manuel Barroso che segnala ai capi di governo riuniti nel settembre 2009 a New York in preparazione di CoP 15: "Il clima sta cambiando più velocemente di quanto si prevedesse anche solo due anni fa. Continuare a comportarci come se niente fosse equivale a rendere inevitabile una trasformazione pericolosa, forse catastrofica del clima nel corso di questo secolo".

Però a Durban (CoP 17, dicembre 2011) un accordo globale viene rimandato al 2015. Certo, è una trattativa mondiale che non ha precedenti di livello comparabile, e che, per di più, richiederebbe ai Paesi più forti di allargare di molto - almeno 100 miliardi di dollari all'anno - il modesto budget previsto a Cancun (CoP 16). Ma tutte le considerazioni sull'inerzia dei sistemi produttivi, economici e sociali legati alle fonti fossili e sulle novità e difficoltà della trattativa globale non esimono dal rilevare una divaricazione preoccupante tra intenti professati e tempi della crisi ambientale. 

Nell'editoriale del primo numero on line del 2012, la rivista Nature rivolge un accorato appello agli scienziati perché utilizzino tutti i mezzi a disposizione della comunicazione per far fronte, con argomenti scientifici ma con linguaggio universalmente comprensibile, non solo alle campagne di "negazionisti" o "scettici" ma, soprattutto, al grave calo di interesse nell'opinione pubblica mondiale nei confronti dei cambiamenti climatici, proprio nella fase più drammatica: "The treat has never been greater".

La ruota si è inceppata. La drammatica urgenza è ben chiara alla politica - vedi Barroso - ma trova in essa un'eco debole, non in grado di attivare la "prompt action" che pure le Accademie delle Scienze richiedevano. La politica è anche consapevole delle conseguenze catastrofiche degli scenari di "adattamento" - un miliardo e mezzo di abitanti della terra, non più il piccolo Stato di Kiribati, da traslocare sull'arco di vent'anni in territori a quote più elevate - ma non sembra in grado di rispondere a una pura istanza di razionalità globale. E quella drammatica urgenza trova, ahinoi!, un'eco ancor minore o nulla nel globalizzato mondo dell'economia e della finanza.

1. continua

 

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