[16/05/2012] News

Spending review? E' il momento di ripensare profondamente il rapporto tra pubblico e privato in questo Paese

La spending review è oggi presentata come lo strumento essenziale per recuperare risorse da destinare al sostegno delle politiche di sviluppo. Non abbiamo dubbi che sia una strada necessaria, se non si vuole tornare al metodo sbrigativo quanto indiscriminato dei tagli trasversali e se si vuole invece incidere selettivamente sulla sostanza della spesa pubblica. Nel caso del governo nazionale, un ulteriore elemento di interesse sta nel contributo che la cultura aziendale di Enrico Bondi potrà dare ad un tema sinora gestito (con i risultati che conosciamo) nella prospettiva predominante della finanza pubblica.

Ogni prudenza è giustificata, innanzi tutto sulla dimensione quantitativa dei possibili risparmi. Oltre la retorica ed anche oltre l'incredibile esercizio di populismo di chiedere alla "gente" le indicazioni sui tagli in una specie di collettivo videogame, vi sono poi possibili paradossi, che paradossali non sono e con i quali bisognerà fare i conti. Devo ad una conversazione con un esperto dirigente di un grande comune toscano, la considerazione di quanto una lunga lista di importanti risparmi possano derivare da investimenti, in particolare in nuove tecnologie, quindi aumentando oggi le spese "buone" per poter ridurre domani e definitivamente spese "cattive". Fantapolitica?

La spending review rimane tuttavia nell'ambito delle opzioni di natura tecnica. E queste (così come le mitologie salvifiche dei tagli al welfare o dell'evasione fiscale recuperata e punita) verosimilmente non bastano. Forse non è necessario essere un liberista alla Oscar Giannino per porsi la domanda, anche a sinistra, se non sia da ripensare profondamente il rapporto tra pubblico e privato in questo Paese. La questione non si ferma a quella delle (abbozzate) liberalizzazioni di qualche corporazione marginale (leggi: tassisti o farmacisti) e delle privatizzazioni a fini di cassa. Bisogna domandarsi se lo Stato non debba essere più consapevole ed attento nel finalizzare il peso della propria presenza nell'economia in un Paese che ha bisogno di un rapido aggiustamento strutturale del proprio apparato produttivo per riposizionarsi in modo più durevole nella nuova economia globale.

Un autocontenimento del proprio ruolo potrebbe essere utile non solo alla finanza pubblica, ma anche ad una politica industriale che seriamente miri a costruire una nuova economia, verde e fondata sulla conoscenza, e che su questo obiettivi sappia concentrare le risorse.

Invece i segnali negativi non mancano. Le ipotesi di intervento strutturale, che sono di natura essenzialmente politica, sembrano collocarsi di molto oltre gli orizzonti e le intenzioni del governo Monti. E a livelli inferiori, come nel purtroppo esemplare caso toscano, tocca alla Banca d'Italia intervenire con un richiamo severo su un'estensione della presenza pubblica resa direttamente funzionale a disegni politici di parte (vedasi la lettera su Fidi Toscana), quando non utilizzata per surrogare l'incapacità ad esercitare gli strumenti ordinari del governo del territorio (leggasi: aeroporto di Peretola). Nessuno nega la legittimità e, nel caso di Fidi Toscana, la competenza finanziaria di questi interventi, ma la domanda sul "value for money" (come direbbero gli anglosassoni) di queste forme di intervento è oggi più pressante che mai.

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