[17/04/2012] News toscana

Urbanistica, è tempo di ripercorrere la legge 1 del 2005

Nei giorni scorsi, in relazione alla discussione sulla riforma dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, sulla stampa, l'A.D. di IKEA Italia prima, Recchi, alto esponente di Confindustria, poi, hanno ammesso che il problema italiano non è l'articolo 18, che questo lo è solo in parte e non la fondamentale.

Il problema è la lentezza dei procedimenti, delle decisioni, la burocrazia "circolare" che affonda le iniziative.

Simili affermazioni non sorprendono, tant'è che la politica non reagisce, come se ormai non fosse in grado di pensare soluzioni se non per semplificazioni assurde a fronte di una incapacità di ragionamento e forse di contrasto di lobbies interne alle burocrazie statali come locali.

Premesso che il discorso è "scivoloso", è innegabile che abbiamo una capacità massima nella definizione di testi legislativi "epocali" che di fatto pensano che il mondo sia perfetto, non sconti la diversità (che è la sua vera immensa risorsa), l'anomalia o la storia (esempio massimo di questa capacità è forse il dlgs 152/2006), mentre è altrettanto evidente che manchiamo di pragmatismo, forse perché inclini alla furberia funzionale e magari anche personalizzata.

Ma il problema rimane, cioè la nostra difficoltà a garantire ad un investitore, se non proprio tempi certi, almeno logici, rispetto alla sua domanda, alla sua richiesta.

E' vero, se una cosa, per esempio, non è prevista nello strumento urbanistico, i percorsi ed i problemi non possono essere semplici, ma è pur sempre vero che forse di qualche strumento possiamo disporre e forse possiamo intelligentemente farne uso, invece di ricorrere sistematicamente allo spostamento in alto dell'asticella, come avviene per esempio con reiterati tentativi di trasformare, almeno in parte, le valutazioni ambientali strategiche in valutazioni di impatto ambientale.

Purtuttavia, in alcuni casi potrebbe anche esservi della legittimità a richiedere approfondimenti a fronte di interventi o trasformazioni che incidono sensibilmente sulle risorse.

Le cose stanno diversamente quando determinate previsioni sono magari già inserite negli strumenti di pianificazione territoriale; in questo caso infatti, forse per genericità dei primi, si avviano percorsi che sembrano sistematicamente organizzati, nella interrelazione tra diversi soggetti istituzionali, non già per far correre le decisioni, ma per individuare limiti, mettere in discussione, rivalutare.

Cioè sembra che la disciplina preferita delle nostre istituzioni sia la corsa ad ostacoli. Anche se si dà il caso che le ragioni dell'economia e degli investimenti, quindi dell'occupazione e dello sviluppo, non siano bene in relazione con questa disciplina.

Allora tornare a interrogarsi sul da fare non è un esercizio vano, anche se a vari livelli sembra agitarsi molto solo lo spirito dell'apparire come esegesi della soluzione indipendentemente dallo stabilimento di regole che funzionino a prescindere da quel presidente, da quel sindaco o dall'altro.

Insomma, sembra opportuno interrogarsi sull'utilità di una legislazione in materia di governo del territorio che in ossequio all'interpretazione parziale della riforma del titolo V della Costituzione ha fatto si che tutti si occupino di tutto, di eliminare le verifiche di conformità per introdurre il principio di compatibilità che di fatto può essere, in relazione agli interessi in campo, un elastico che qualcuno tira più o meno, o decide di lasciare lento.

Eppure, è del tutto evidente che se vogliamo dare delle certezze dobbiamo fare in modo che ad ogni livello politico amministrativo corrispondano chiare e specifiche competenze decisionali, se la regione dice che un aeroporto non si può fare, fatta salva la necessaria consultazione di provincia e comuni interessati, l'aeroporto non si fa; e così deve valere per la localizzazione degli ospedali, dei porti commerciali, delle autostrade e delle superstrade; e così deve valere ai piani più bassi; e così non si deve scambiare l'utilità di percorsi partecipativi, cioè di consultazione, con l'adesione acritica di una giunta o di un consiglio comunale al sentimento prevalente di coloro che hanno preso parte meritoriamente al percorso di informazione e partecipazione. Altrimenti la nostra non sarebbe più democrazia rappresentativa ma assembleare e referendaria.

Per questo ritengo che si debba fare uno sforzo serio per ripercorrere la legge 1 del 2005, non tanto per individuare una nuova forma degli strumenti urbanistici (a beneficio di chi dei professionisti di settore?), non già a colpi di mano perché si è presentato un problema, ma con approfondimenti che coinvolgano i vari attori dei procedimenti avendo cura di prestare attenzione ai portatori di esperienze e conoscenze, a chi fa ricerca e chi ci mette la faccia sul campo dovendo dare risposte alle imprese ed ai cittadini.

Come dire che bisogna ritornare alla pratica del confronto sulle cose concrete, perché concrete sono le difficoltà dell'economia e delle imprese, di chi perde il lavoro e di chi lo cerca ; perché questo non significa voltare le spalle alle buone pratiche, ad una responsabilità etica ed ambientale, anzi tutto il contrario, perché modificare consuetudini, errori (come lo è stata sicuramente la prassi dei piani urbanistici tradotti in letteratura) è sintomo di intelligenza. 

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