[13/03/2012] News

Se calasse (davvero) il desiderio di consumo

«Scaldarsi e muoversi costa di più che mettere insieme il pranzo con la cena». E' questa la conclusione di Barbara Ardù nel pezzo di commento su Repubblica dei dati di IntesaSanPaolo sui consumi degli italiani. Numeri che hanno sentenziato il ritorno alla spesa delle famiglie italiane a 30 anni fa.

Meno carne, frutta e latte nel carrello, ma - come detto - e ribadito da Altroconsumo «Le famiglie tendono a rinunciare a spese in prodotti durevoli e sono indotte a ridurre anche le spese in beni primari come l'alimentare, al fine di poter almeno pagare la bolletta energetica».

Da un certo punto di vista verrebbe da dire che, di fronte agli sprechi alimentari, una riduzione dei consumi potrebbe essere salutare per l'uomo e per l'ambiente. Mangiare meno carne, ad esempio, non fa affatto male, anzi. Certo, la stessa cosa andrebbe detta per l'energia e per la materia e se qualcosa per la prima si fa, per la seconda invece è ancora da marziani porre il problema.

E nonostante ci colpisca l'idea che l'energia ci costi più del cibo (per produrre e per distribuire il quale comunque serve energia e quindi la cosa si complica ancora di più), non abbiamo una risposta definitiva sul fatto che questo sia un bene o un male.

Ciò su cui vorremmo porre l'attenzione è tuttavia sul fatto che questa "dieta" sia solo imposta dalla crisi (come dicono tutti), o se accanto si stia sviluppando (o si potrebbe sviluppare) anche una nuova cultura più sostenibile nell'alimentazione. Dal nostro punto di vista, infatti, il cambiamento del modello di sviluppo non può essere quello che riporta i consumi ai livelli insostenibili degli anni passati.

Non in Italia e non in Europa, dove il problema era largamente il contrario fino a poco tempo fa, ovvero una superofferta che cominciava semmai a sentire già le prime avvisagli di ridotta domanda. La sovracapacità non è conseguenza della crisi, come noto, semmai è stata parte dell'inizio della crisi stessa. Ma se vogliamo fare un salto in avanti, il Pil che arriva da un aumento dei consumi (alimentari e non) non dovrebbe più essere quello che ci dà il segno del benessere.

Nel new normal che abbiamo in testa non c'è più spazio per l'acquistismo e questo è chiaro che avrà come conseguenza che la crescita la si dovrà trovare altrove. Nella cultura, come anche noi sosteniamo, nella manutenzione del patrimonio abitativo e ambientale, nella manifattura che ricicla i rifiuti, nelle energia rinnovabili, nella mobilità sostenibile.

E' un cambio di paradigma per l'elaborazione e l'affermazione del quale una volta tanto sembrano arrivare buone notizie dall'ultima ricerca del Censis su ''I valori degli italiani'' che è stata realizzata nell'ambito delle attività per le celebrazioni del 150/mo anniversario dell'Unità d'Italia, che sarà presentata questo pomeriggio. Quali sono le buone nuove?

«La spinta individualista - si legge sull'Ansa - che pure dagli anni '70 in poi ha favorito crescita e sviluppo sembra entrare in crisi: gli italiani sono alla riscoperta delle relazioni.. Per il futuro - emerge dalla ricerca - i valori che faranno l'Italia e gli italiani sembrano poggiare sempre meno sulla rivendicazione dell'autonomia personale e sempre più sulla riscoperta dell'altro, sulla relazione e la responsabilità. Sono valori che in questa fase fanno emergere barlumi di speranza che vanno però - sollecita l'analisi del Censis - ''alimentate e potenziate affinché possano diventare un nuovo motore di crescita socio-economica e civile del Paese». Non solo, il calo dell'individualismo si registra anche in ambito politico: oltre il 70% degli italiani esprime «rigetto per la verticalizzazione personalizzata, cuore della politica soggettivizzata».

Più complicato, ma di interesse, anche il capitolo relativo all'amore per il bello, «che oggi prende il sopravvento: il 70% degli italiani è convinto che vivere in un posto bello aiuti a diventare persone migliori; crede che esista un legame tra etica e estetica e che la bellezza abbia una funzione educativa». Più complicato perché per quanto necessario avere anche il culto (o meglio la cultura) del bello per aspirare a una società migliore, la domanda ci pare abbia poco senso: chi direbbe mai che vivere in un posto brutto aiuti a diventare persone migliori?

Forse qualche intellettuale (e avrebbe pure qualche argomento) ma non l'italiano medio in un sondaggio. A parte questo, appare più interessante, e così si torna al nodo consumi che la suddetta (dal Censis) «crisi dell'individualismo» porti con sé «anche il consumismo» che ora «attrae meno: il 57% degli italiani pensa che, al di là di problemi di reddito, nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno sentito rispetto a qualche anno fa. Il 51% degli intervistati crede che nella propria famiglia si potrebbe consumare meno tagliando eccessi e sprechi; il 45% pensa che si dovrebbe conservare quello che si ha piuttosto che puntare ad avere di più (29%).

La quota degli italiani che sostiene di volere consumare meno sale a oltre il 61% nel Nordovest d'Italia e a oltre il 55% al Centro, è maggioritaria tra i giovani e gli adulti. Chi è convinto che gli italiani abbiano le cose importanti afferma anche di avere - di tanto in tanto - il desiderio per nuovi beni o servizi: su un totale del campione che si e' così espresso, pari al 31,8%, nei giovani fra i 18 e i 29 anni la percentuale è del 35,2%, del 30,7% negli italiani tra i 30 e i 44 anni, sale al 34,2% tra chi ha un'età' compresa tra i 45 e i 64 anni ed è del 27,8% per chi ha 65 anni e oltre».

Lo diciamo sottovoce, ma sarebbe un fiore della speranza se alla fine della crisi il desiderio di una società migliore ci portasse alla condivisione di un modello di sviluppo più sostenibile da imporre al mercato - e non viceversa - scardinandone le fondamenta oggi impantanate nelle sabbie mobile dell'economia finanziaria, incarnando l'idea di una crescita della società reale quando è l'essere a crescere e non l'avere.

Torna all'archivio