[17/02/2012] News

Piccolo è bello: a E. F. Schumacher piacerebbero le nanotecnologie?

Nel procedere a singhiozzo di un corso storico che puntualmente evolve per contrasti - e non con un lento ma costante fluire verso il progresso, come spesso viene invece dipinto - una fetta sempre più ampia delle società umane è approdata (o sta per approdare) allo status impropriamente definito di "civiltà sviluppata".

Questa ambita condizione è caratterizzata da numerosi fattori, certamente vari, ma tra le costanti in gioco rientrano sicuramente un massiccio utilizzo di materia ed energia, atto a sancire la nascita e garantire il proseguo delle società sviluppate. Come un'enorme fornace, esse bruciano le risorse dell'ecosistema per garantirci quello stile di vita a cui noi occidentali siamo ormai abituati da qualche decennio. Tale mirabile progresso umano, unito in una struttura possente quando osservata dall'esterno, ad un'attenta ottica interna si mostra in realtà come un groviera.

La fornace è piena di buchi, che con grande inefficienza perdono parte del calore raccolto; nel frattempo, il combustibile a disposizione è in progressiva diminuzione, mentre iniziamo a non saper dove raccogliere gli scarti della combustione stessa. Si tratta di criticità ormai ben note, che investono le basi del nostro attuale modello di sviluppo (o meglio, di crescita). Come nel caso degli organismi viventi, anche le società vivono del connubio di materia, energia ed informazione: non è certo la prima volta, da quando l'essere umano ha cominciato a calcare la superficie del pianeta, che una fiorente civiltà, arrivata all'apice del suo progresso, capitola rovinosamente.

I più fiorenti imperi e le più avanzate società hanno in passato subito una simile sorte, mentre altri sono riusciti a mutar pelle abbastanza in fretta da sopravvivere in altra forma, per continuare a costruire la strada del progresso umano. Sovente, l'elemento nascosto che ha contribuito in modo fondamentale al crollo, o al rinnovamento, è stato uno in particolare: l'eccessiva complessità. Ovvero, l'accumulo non più gestibile di energia, materia ed informazione, che si trova infine a strangolare nei suoi intrecci ciò che prima aveva amorevolmente nutrito.

Senza poter eludere la necessità del cambiamento, la scelta si riduce al mutare per progredire o al perire, lasciando spazio ad altro. Nella nostra società globalizzata, il crollo sarebbe probabilmente il più fragoroso mai udito, poiché il numero degli esseri umani coinvolti sarebbe enorme. Senza alcun compiacimento nel prospettare una possibile sventura, il moderno paradigma turbocapitalista ha ormai percorso la propria campana di Gauss fino all'apice o quasi, seguendo quella che è anche la forma della famosa curva di Hubbert, che indovina il picco del petrolio.

Come riportato dal Guardian, il presidente della Generation investment management ed ex-vicepresidente Usa, Al Gore, ha recentemente «difeso con fermezza il capitalismo come "fondamentalmente superiore a qualsiasi altro sistema per organizzare l'attività economica", ma ha criticato le pratiche di investimento attuali per le loro prospettive a breve termine e il loro disinteresse per i fattori sociali e ambientali». Che il capitalismo sia effettivamente il migliore sistema tra le organizzazioni economiche conosciute è possibile, ma non è dato sapere; certamente, alternative concrete per sostituirlo al momento non se ne vedono, e rimane dunque pressante la necessità di riformarlo, più che depennarlo.

Non è certo però così facile, dato che in una società complessa, a complessi problemi corrispondono altrettanto complesse soluzioni. Ci troviamo bloccati, tra l'altro, da forti pressioni lobbistiche, difficoltà tecniche, tecnologiche e, non ultimo, psicologiche. Come sottolineato in un'audizione alla Camera anche da Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, l'attuale «raffreddamento dell'economia europea si attribuisce molto a fattori psicologici legati alla crisi finanziaria» - alla faccia dell'homo puramente economico che dovrebbe agire all'interno dei mercati.

Una possibile via d'uscita viene però ancora una volta individuata e tracciata in anticipo dal mondo della cultura - stavolta declinata più propriamente nella tecnologia -  individuata nella sua propria funzione di stella polare. In un intervento su la Repubblica, il matematico di Cambridge John D. Barrow sottolinea come «le nostre stesse tecnologie si sono orientate ormai nella direzione di un processo di sempre maggiore miniaturizzazione».

In una sorta di rielaborazione in chiave tecnologica di un bestseller dell'economia eterodossa - il celebre "Piccolo è bello", di E. F. Schumacher - Barrow prosegue introducendo un paragone con possibili specie aliene presenti nel nostro universo. E di queste afferma: «soltanto spostandosi verso un'economia energetica maggiore, verso consumi più ridotti di materie prime e un inquinamento minimo garantito dalle loro nanotecnologie (o più infinitesimali ancora) saranno in grado di sopravvivere sui pianeti nel lungo periodo». Come la nostra di civiltà, del resto: non sono certo soltanto gli alieni a doversi preoccupare dell'ecosistema.

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