[30/11/2011] News

Il cancro della finanza tentacolare blocca qualsiasi strada verso la sostenibilità

«Per alcuni sarà semplice ed ovvio, per altri più complicato e fors'anche una storiella. Ma al punto dobbiamo ancora arrivare: non raggiungeremo la sostenibilità economica e sociale senza vedere la fine della finanziarizzazione e l'emergere di un nuovo modello (di crescita) economico».

Kristian Weise, direttore del progressista think tank danese Cevea ed ex segretario dei Socialdemocratici danesi al Parlamento europeo, consegna a queste parole l'incipit del suo intervento riportato sulle pagine del Social europe journal. Alla sua analisi manca la terza e fondamentale faccia che compone il prisma della sostenibilità, quello che riguarda la sostenibilità ecologica; nonostante questa mancanza, l'analisi che Weise porta avanti all'indubbio merito di sottolineare uno dei grandi nodi da sciogliere per poter immaginare un diverso modello di sviluppo.

Come anche greenreport.it continua ad evidenziare, la sintetica analisi che Nicola Cacace scrive su l'Unità, «le disuguaglianze sono la causa prima della crisi economica che devasta il mondo occidentale, la finanza sregolata la causa seconda. Le differenze di guadagno tra operai e manager, passate negli ultimi decenni da 1/30 a 1/300 hanno prodotto un forte calo della domanda mentre il volume dell'economia finanziaria è arrivato a 8 volte l'economia reale, 600 trilioni di dollari contro 80 trilioni di Pil mondiale. In Italia nel 2010 sono aumentati sia i poveri, da 7,8 milioni a 8,3 milioni che i nuovi poveri, occupati che non arrivano a fine mese, colpendo soprattutto le famiglie numerose, giovani e Mezzogiorno».

E non è un caso se «negli Usa il fenomeno (16% di poveri) si è accentuato dagli anni di Reagan - uno dei principali promotori del mercato deregolato e senza freni come unico timone di riferimento, ndr. A riprova del valore economico dell'uguaglianza nella società della conoscenza, oggi i paesi a più alta eguaglianza sono anche i più ricchi». E tra i più sostenibili nel panorama delle economie sviluppate, dato che l'esempio principe, in questo caso, non può essere che quello dei paesi Scandinavi.

Per rispondere alla domanda che chiede di cosa si parli quando si cita la "finanziarizzazione", Weise afferma semplicemente che «si tratta di quel che sta succedendo alle nostre economie ed alle nostre società da trent'anni a questa parte, o più». Sintetizzabile nel predominio delle attività finanziarie sulla produzione di beni e servizi, questo processo esponenziale ha tradito il principale e lecito scopo d'esistere della finanza, che in se rappresenta soltanto uno strumento nelle mani dell'uomo - e, quindi, neutro.

Raccogliere il risparmio polverizzato in una miriade di individui e convogliarlo in progetti per uno sviluppo sostenibile non è infatti in alcun modo paragonabile al concentramento dello stesso risparmio ora preponderante, quello indirizzato a gonfiare le rendite finanziarie di pochi, rimanendo nell'etere dell'economia virtuale e senza essere reinvestito dai detentori di capitale nella promozione di attività reali, e senza dunque promuovere né crescita né occupazione - finendo così per tradire anche il modus operandi classico del pur fortemente diseguale e migliorabile capitalismo classico, puro e libero.

Associato al fenomeno della globalizzazione, il cancro della finanziarizzazione spinta ha potuto spandersi e contagiare le principali economie del mondo, in un incedere finora praticamente inarrestabile. Secondo i dati snocciolati da Weise, l'equivalente delle scambi avvenuti nelle piazze finanziarie, nel 1990 era paragonabile a 15 volte il Pil globale dell'epoca, mentre oggigiorno ha toccato quota 74 volte. ‹‹Ed il commercio di attività finanziarie ha una crescita del 50% più veloce rispetto a quello del commercio di altri beni o servizi››, sottolinea l'economista danese.

Weise continua poi la sua analisi citando il risultato di una ricerca che porta a quota 148 i crolli finanziari (durante i quali l'economia di un Paese è diminuita del 10% o più) dal 1870 ad ora, e sottolinea come le economie maggiormente dominate dalla finanza siano più inclini a cadere in crisi economiche e recessioni, come anche «negli ultimi decenni, le crisi sono diventate sempre più frequenti. Secondo il Fmi, la crisi finanziaria degli ultimi 18 mesi è mediamente più lunga delle altre, e serviranno quasi tre anni per tornare ai livelli pre-crisi. Come i prof. Reinhart e Rogoff hanno dimostrato, il debito pubblico ha un aumento medio dell'86% dopo una grave crisi finanziaria. E l'occupazione? Cade molto indietro...».

«Ma la sostenibilità economica e sociale riguarda qualcosa di più grande dei costi della crisi - continua Weise. Si tratta, fondamentalmente, di assicurare un qualche tipo di progresso per tutti. Anche in questo caso, la finanziarizzazione è una minaccia››. L'oppressiva presenza del mondo finanziario impedisce l'incremento degli investimenti sulla formazione di capitale umano (istruzione) e produttivo.

Portando a testimoniare un nuovo studio dell'Ue che afferma come in questi ultimi due anni di crisi la (poca) nuova occupazione creatasi riguardi prevalentemente posti a basso reddito, temporanei o part-time, Weise conclude affermando che ‹‹dal 1990 in poi - quando la finanziarizzazione è realmente decollata - gli investimenti nell'economia reale sono in ritirata. Ci sono diverse ragioni che spiegano ciò. Ma una si distingue chiaramente: gli orientamenti impazienti ed a breve termine degli operatori finanziari».

Per uno sviluppo che prosegua sui binari dell'uguaglianza, e per una sopravvivenza della specie umana all'interno di un ecosistema ospitale alla vita, gli interessi di breve e brevissimo termine della finanza devono lasciare spazio ad una progettazione di lungo periodo. Non ci sarà dunque alcuna sostenibilità da raggiungere, senza una riforma del nostro modo di operare e pensare la finanza.

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