[02/11/2011] News

Ho studiato economia e me ne pento di F. Noiville

Bollati Boringhieri, 2010

Questo piccolo volume che segnaliamo, è stato edito qualche tempo fa ma è estremamente attuale sia perché la crisi economico-finanziaria si è prolungata ed addirittura acuita, sia perché porta ragioni (alcune nuove) per individuare altre responsabilità, oltre quelle della politica, che hanno condotto molti paesi occidentali vicino al "default". La finanza si è mangiata l'economia reale, più volte è stato detto anche da greenreport ma chi doveva avvertirci di questo avvicinamento al baratro come mai non lo ha fatto? Qualche risposta prova a fornirla Florence Noiville laureata in una delle più prestigiose business schools francesi, l'Ecole des Haute Etudes Commerciales (HEC), che ha iniziato la carriera nella finanza, ed oggi lavora come giornalista a "Le Monde" oltre ad essere scrittrice. Secondo l'autrice da queste scuole, numerose in varie parti del mondo, escono manager preparatissimi ma per quando va tutto bene. La futura carriera garantita e gli stipendi elevati sono le motivazioni che spingono gli aspiranti economisti a frequentare questi atenei in cui le istituzioni scolastiche non hanno mai segnalato, spiega l'autrice, il pericolo del crollo dell'economia capitalista che ha portato ad una crisi paragonabile a quella del 1929. «Queste scuole, in totale osmosi con il mondo degli affari, non godevano forse di una posizione privilegiata, che avrebbe consentito loro di individuare per prime la catastrofe in arrivo?».  

La domanda che pone Noiville è retorica visto che contiene già la risposta. Queste scuole sono state programmate per formare le élite economico-finanziarie ad un capitalismo senza freni, eppure segnali illuminanti erano già arrivati qualche decennio fa dal Club di Roma sulla necessità che anche l'economia lavorasse per la sostenibilità dello sviluppo. La finanza ha prodotto un enorme debito, il marketing una sovrapproduzione e un iperconsumo, le due cose insieme hanno portato all'implosione che stiamo osservando in queste settimane e che coinvolge molto da vicino anche l'Italia, nonostante che il governo fino a qualche mese fa ritenesse il nostro paese al riparo dallo scossone economico finanziario che già si era abbattuto su molti stati occidentali.

Nelle scuole di management la ricetta che si insegna è che si aumentano i redditi e/o si diminuiscono i costi, l'etica non fa parte del programma ed il risultato è stata la creazione di un divario sempre più ampio tra ricchi (pochi) e poveri (tanti), tra l'altro sempre più numerosi. Inoltre il disastro sociale va di pari passo a quello ambientale perché la corsa alle merci alimentata dal dogma della crescita ha portato ad una sovrapproduzione che ha riempito la Terra di scarti e incrementato continuamente i consumi energetici.

L'autrice interroga colleghi affermati che hanno frequentato grandi scuole economiche, sui limiti dei metodi formativi adottati che, nonostante la recente introduzione di corsi sullo sviluppo sostenibile e sul commercio solidale, poco frequentati ed inseriti prevalentemente in piani di studio secondari (una sorta di green washing formativo), continuano ad essere caratterizzati da discipline regine in cui vengono tracciati sempre gli stessi fondamentali, in cui il profitto prevale su tutto. Secondo l'autrice gli economisti non si sentono responsabili, non si sentono minimamente colpevoli e nemmeno compartecipi della situazione creata, ma pensano solo a come uscirne percorrendo le strade note e domandandosi "quando riprenderà la crescita?"

Studenti ed economisti che Noiville ha intervistato, pur riconoscendo che la finanza è senza etica, pur vedendone limiti e punti deboli stanno all'interno del sistema senza combatterlo, senza provare a cambiarlo. Del resto nelle scuole dove si insiste sulla creazione di valore principalmente finanziario, il denaro è la prima preoccupazione degli insegnamenti e degli studenti «Perché la scuola dovrebbe cambiare atteggiamento se la domanda non muta e se continua a guadagnare soldi fabbricando lo stesso prodotto?»

L'autrice chiede se il capitalismo può essere eticamente sostenibile e per questo intervista Muhammad Yunus, economista bengalese e banchiere, premio Nobel per la pace nel 2006. Yunus è stato il fondatore della banca dei poveri, la Grameen Bank, ed "inventore" del microcredito, cioè di un modesto prestito di denaro per iniziare attività, elargito a persone che non potevano offrire garanzie. In questo progetto c'è un forte elemento innovativo ma sono comunque stati applicati i metodi classici della finanza al servizio però dell'interesse comune, cioè Yunus ha dimostrato che si possono usare gli stessi strumenti applicandoli nel modo giusto. In Bangladesh la Grameen Bank ha permesso di far nascere molte aziende, alcune anche della green economy, che praticano il social business dove ci sono profitti che vengono reinvestiti. Per Yunus il social business è «l'elemento mancante del capitalismo la sua diffusione avrebbe permesso di salvare il sistema fornendogli i mezzi per trattare le questioni globali che attualmente gli sono estranee».

Questa esperienza seppur limitata, è importante perché dimostra che un'altra economia è possibile, ma purtroppo per uscire dalla crisi si stanno percorrendo le stesse strade come conferma un economista intervistato da Noiville, che afferma «non cambierà un bel niente» e informa come già ricominciano a circolare dei prodotti finanziari che tra qualche tempo saranno nuovamente definiti "tossici". A questa conclusione pessimista, in cui la "finanziarizzazione provoca metastasi perfino nell'educazione", Noiville che attraverso il sogno immagina il cambiamento di paradigma, non si vuole rassegnare e chiede alle classi dirigenti responsabili dell'alta formazione economica di impegnarsi affinché "le grandes écoles de commerce" si riformino «perché hanno il dovere, anch'esse di ripensare il legame tra finanza, capitalismo e società. Potremo allora dire di avere "ri-studiato" economia e di esserne fieri».

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