[12/08/2011] News

Il pareggio di bilancio nella Costituzione non è la soluzione. La lettera dei Nobel per l'economia vale anche per l'Italia

«Cari presidente Berlusconi, presidente Fini, presidente Schifani, ministro Tremonti, cari rappresentanti delle opposizioni, noi sottoscritti economisti sollecitiamo che venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione della Repubblica italiana inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio. Vero è che il Paese è alle prese con gravi problemi sul fronte dei conti pubblici, problemi che vanno affrontati con misure che comincino abbastanza forte da poterle assorbire, ma inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio di bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel caso fosse approvato un emendamento sul pareggio di bilancio, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose».

Cambiano i destinatari, ma l'incipit della lettera che otto economisti di primissimo piano (tra cui cinque premi Nobel) hanno indirizzato ai vertici della politica statunitense, Obama in testa, conserva tutta la sua integrità ed il suo valore anche per il gotha politico della nostra Repubblica.

La lettera, la cui traduzione integrale è pubblicata oggi tra le pagine dell'Unità, prosegue con sette e ben convincenti punti, nei quali vengono elencati i principali motivi per cui l'ipotesi ventilata di porre il pareggio di bilancio della spesa pubblica tra le voci della carta costituzionale a stelle strisce, se concretizzata, sarebbe un grave errore di politica economica. Gli stessi principi che, in linea generale e tolti dalle peculiarità tipiche della organizzazione istituzionale presente oltre oceano, è possibile riportare anche per l'Italia. E che vale la pena di sintetizzare.

Il punto cardine della critica mossa dal team degli economisti può essere sintetizzata dall'esplicativa immagine della «camicia di forza economica», che verrebbe indossata dal Paese (Italia o Usa che sia) che decidesse di autoimporsi la palla al piede del pareggio di bilancio per via costituzionale, che avrebbe «effetti perversi in caso di recessione» - ovvero già adesso.

Nei momenti di bufera lo stato avrebbe le mani legate, senza la possibilità di finanziare quegli ammortizzatori sociali che rappresentano per i cittadini colpiti dalla crisi l'unico cuscino sul quale cadere in caso di difficoltà e disoccupazione. A sua volta, una consequenziale diminuzione delle possibilità di spesa di tali soggetti, oltre a essere fonte di forti difficoltà per loro stessi, si tradurrebbe in una fase più acuta della recessione: alla diminuzione del reddito disponibile seguirebbe una discesa della domanda aggregata interna, con un avvitamento della spirale recessiva.

Le pressioni economiche e sociali che deriverebbero da questo scenario di immobilità statale porterebbero probabilmente, come viene evidenziato nella missiva, con la raccolta della liquidità necessaria da effettuarsi tramite manovre indecenti, come la svendita dei beni pubblici se non parti del demanio stesso, delle quali l'Italia ha già avuto quanto meno parecchi sentori.

Anche quando il cielo all'orizzonte rimane sereno, però, un pareggio di bilancio forzato non permetterebbe di sfruttare appieno il periodo positivo dell'economia. Non si potrebbe sforare il bilancio per effettuare investimenti di una certa rilevanza, impossibili da finanziare solamente attraverso il gettito fiscale duro e puro; d'altronde, quante aziende sopravvivrebbero, e per quanto tempo, se fosse tagliato loro l'accesso al credito? Alla sola ipotesi i polsi degli imprenditori tremano, e la politica si preoccupa.

La riconversione stessa del sistema economico verso uno sviluppo sostenibile tramonterebbe già prima di sorgere definitivamente, e con essa tutte le dichiarazioni di buoni intenti che si sono levate in merito. Le sole risorse necessarie per l'ammodernamento delle nuove infrastrutture necessarie, per non contare gli investimenti in ricerca e sviluppo o la riconversione di intere linee di produzione non si capisce in che modo sarebbero possibili da trovare, condannandoci a rimanere all'interno dell'attuale ed insostenibile (in tutti i sensi) modello di sviluppo.

Tralasciando dunque i più che fondati dubbi sulla rapidità e l'efficacia dell'introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione in un Paese come l'Italia dove la norma è disattendere le regole, costituzionali o meno, l'idea conserva l'aria di una mossa controproducente da qualunque punto di vista la si guardi.

Questo non significa lasciare campo libero al deficit di bilancio, autorizzando a spendere e spandere le risorse pubbliche in un processo anch'esso insostenibile, ma limitare la spesa entro limiti appropriati, e soprattutto dedicarla ad un percorso di vero sviluppo più che di indiscriminata crescita, tramite un accesso al credito efficiente e non eccessivamente dispendioso, ma non irresponsabile. Per l'Unione europea, questa via potrebbe concretizzarsi proprio nell'istituzione del tanto invocato Eurobond, opportunamente disegnato.
 

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