[12/08/2011] News

Oltre la crisi, W come Wish: il desiderio di un nuovo modello economico

Mentre si viene a sapere da Bankitalia che oggi il valore del debito delle amministrazioni pubbliche italiane ha raggiunto un nuovo massimo storico a 1.901,9 miliardi, aumento di 4,4 miliardi rispetto al mese precedente, e in attesa di conoscere nel dettaglio il decreto con le misure anti-crisi varate dal Consiglio dei ministri, cogliamo l'occasione per riflettere su quanto sostiene oggi sull'Unità Silvano Andriani, per guardare oltre la crisi.

Lo facciamo perché siamo convinti che qualunque misura verrà presa, sia dall'Italia, sia dall'Europa, sarà un analgesico a un malato terminale a meno che dietro non si aspiri comunemente a «rimettere in discussione il tipo di sviluppo che ha generato la crisi».

Partendo dagli errori che secondo lui stanno commettendo negli Stati Uniti, Andriani sostiene che dopo quattro anni di crisi, due cose su tutte le altre «appaiono necessarie ora: procedere ad una svalutazione della massa di debiti esistenti e continuare con politiche fiscali e monetarie espansive a condizione che esse vengano utilizzate nel contesto di nuove forme di cooperazione internazionali che puntino a riequilibrare l'economia mondiale tenendo conto non solo degli squilibri tra Stati, ma anche di quelli energetici, alimentari, ambientali».

In tale contesto, aggiunge «che comporta un mutamento del modello di sviluppo, ogni Stato dovrebbe guidare un processo di ricollocazione del proprio Paese nell'economia mondiale».

Ecco, dal nostro punto di vista questa è la vera ‘opportunità' che ci concede di nuovo la crisi. Vorremmo che la W - il double dip - che rappresenta l'andamento del crack dei mercati fosse l'iniziale della parola wish: desiderio. Il "desiderio" di un modello di sviluppo diverso. E per ottenerlo c'è' prima bisogno davvero di uno shock, ma all'economy, ovvero un governo mondiale sulle materie prime e sull'energia, le cosiddette commodities.

Queste due variabili fisiche vanno sottratte al mercato e controllate da un consiglio di sicurezza dell'Onu davvero rappresentativo, allargato alle potenze emergenti ed ai rappresentanti dei Paesi poveri e poverissimi. Governi e stati occidentali devono cedere sovranità su questi due elementi o le economie emergenti esploderanno (e con esse le economie tradizionali) perché non reggeranno l'esplosione sociale.

Contemporaneamente, come dice Joseph Stiglitz in Bancarotta dobbiamo «creare un nuovo sistema finanziario che faccia quello che le persone si aspettano da un sistema finanziario: realizzare un nuovo sistema economico che crei posti di lavoro significativi e decenti per chi ne ha bisogno; un sistema in cui il divario tra ricchi e poveri si assottigli, anziché ampliarsi; (...) l'occasione di creare una nuova società in cui ogni individuo possa realizzare le proprie aspirazioni e potenzialità, in cui i cittadini condividono ideali e valori; una comunità che tratti il pianeta con rispetto che, nel lungo periodo, esigerà sicuramente».

Per fare tutto questo - al netto di alcune utopie presenti nella visione del premio Nobel per l'economia del 2001 - serve una gigantesca pianificazione, un new deal - per un breve periodo già evocato e poi subito dimenticato dai potenti del mondo sotto scacco dei poteri finanziari - che non può darsi con un'economia drogata dalla finanza come è attualmente che non sa guardare oltre ai rumors di giornata.

Siccome questa economia non è un fenomeno naturale, nonostante analogie linguistiche utilizzate dai media quali tempeste, terremoti, tsunami ecc., la politica può (e deve) correggere il tiro se davvero ricerca una exit strategy a lungo termine, che non ci riconduca ancora una volta contro il muro.

Le "mani" sono "tutte visibili", persino quelle che spingono i tasti su quei pc e decidono dei destini di intere nazioni. Siamo dentro la terza guerra mondiale, che è finanziaria, nemmeno Einstein poteva prevederla, tuttavia il rischio è davvero e comunque che la quarta, di guerra, sia combattuta con clave e pietre, e - con tutta probabilità - per difendere quel che resterà di ciò che oggi chiamiamo "beni comuni".

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