[01/08/2011] News

Default Usa evitato, ma le borse non festeggiano

Alla fine l'accordo è stato raggiunto e il default evitato, senza neppure dover ricorrere alla clausola di emergenza che comunque la costituzione americana affida al presidente degli Stati Uniti. Accordo raggiunto tra i due presidenti delle camere, e dunque respiri di sollievo un po' in tutto il mondo, compresa l'Italia, che era uno dei paesi che avevano maggiormente da perdere da questo lungo tira e molla tra repubblicani e democratici: tradotto in termini comprensibili a tutti infatti, il rischio era che il 3 agosto i risparmiatori americani ritirassero in massa i loro risparmi dai Money market funds, fondi che hanno in paniere i debiti sovrani di molti stati per garantire investimenti a basso rischio. A fronte di una possibile richiesta abnorme di liquidità questi fondi avrebbero ( e in parte avevano già cominciato a farlo) dovuto svendere questi debiti sovrani, cominciando da quelli più rischiosi, come l'Italia appunto, stretta da assedio tra mille fuochi interni ed esterni.

Per questo stamani si è tirato un sospiro di sollievo e le borse sono potute ripartire con una spada di Damocle in meno calata sulla testa. Anche se poi nel corso della giornate le cose sono andate peggiorando, fino a che l'effetto Obama è praticamente svanito, con un clamoroso tonfo soprattutto di Piazza Affari.

In realtà le preoccupazioni per le conseguenze di questo accordo sono tante: primo perché si tratta di una manovra economica fortemente restrittiva, ma soprattutto senza nuove tasse come chiedeva la destra, che risulta vittoriosa anche per il metodo: come spiega Federico Rampini su Repubblica.it «è riuscita a creare un precedente, trasformando in uno strumento di ricatto sul presidente quell'autorizzazione di aumento del debito pubblico che in passato era un atto dovuto e di routine, visto che il debito è la risultante di leggi di spesa già approvate dallo stesso Congresso».

In Italia l'accordo sa molto di respirazione bocca a bocca per un uno stato, ma soprattutto per un governo ormai esangue: la crisi non sembra un problema degno di interesse per il premier, che ancora fugge dalla richiesta di riferirne alle Camere, nel frattempo il ministro più importante sembra appeso al filo sempre più sottile dei bookmakers, mentre le parti sociali chiedono implicitamente al governo di farsi da parte e Confindustria chiede addirittura un tavolo di confronto alla pari con governo e opposizione.

Vale la pena di tornare un attimo allora sul ‘patto per la crescita' invocato la settimana scorsa da sindacati e associazioni di categoria. Il valore politico è innegabile, e la melina con la quale i vari esponenti del governo hanno provato ad aggirarlo la dice lunga sul messaggio, che appunto però è solo e soltanto politico: «Mi pare che i contenuti non ci siano proprio - spiegava sabato al manifesto il sociologo Luciano Gallino - Se si parlasse di contenuti, quelle associazioni che l'hanno firmato prenderebbero probabilmente strade molto diverse. Per alcune i mezzi per riprendere la crescita sembrano chiari, l'hanno detto tante volte: occorre tagliare ancora la spesa pubblica, privatizzare i beni comuni, abbassare i salari, ecc. Suppongo che altre forze - per esempio i sindacati - la vedano diversamente. Quindi, questa dichiarazione di intenti non farebbe molta strada se ci si mettesse davanti ad un'agenda anche limitata di cose da fare».

Sottoscriviamo dalla prima all'ultima parola (aggiungendo che ci piacerebbe che questa crescita avesse anche dei criteri direttori: cioè si indicasse cosa deve crescere per far risalire il Pil, che è poi l'obiettivo finale di quel patto). Anche perché un patto presuppone una condivisione, e quasi sempre qualche rinuncia. Ed è questo che deve preoccupare, soprattutto se domenica il Sole 24 ore pubblica una doppia intervista a Camusso e Bonanni dove le risposte sembrano fotocopie e dove in virtù dell'emergenza in cui vive il Paese si sdoganano in unico mazzo infrastrutture come la Tav in Val di Susa, il rigassificatore di Porto Empedocle o la riconversione a carbone di Porto Tolle, che invece hanno storie e impatti profondamente diversi, e dovrebbero essere considerato nella loro complessità, ambientale, sociale ed economica. 

I contenuti, nel patto per la crescita, per il momento, non ci sono, né tantomeno possiamo trovarli nella manovra finanziaria di Tremonti o nelle idee di un governo completamente disassato:

«Mentre tedeschi, francesi, americani hanno sviluppato robuste politiche - dice ancora Gallino - che hanno permesso di consolidare la produzione nel proprio paese (oltre la metà della produzione industriale tedesca e francese è realizzata sul proprio territorio), a noi la politica industriale manca da decenni, ma questo governo non sa nemmeno di cosa si tratti. Politica industriale non vuol certo dire bassi salari o libertà di licenziamento, ma iniziative che vanno dagli investimenti in ricerca e sviluppo fino al famoso "lavorare meno per lavorare tutti». Che, nel caso dei tedeschi, non è uno slogan, ma un atto di politica industriale. Qui invece si parla solo di aumentare l'orario, gli straordinari, l'età lavorativa fino a 70 anni. È il "pacchetto europeo", con cui stanno sparando addosso allo stato sociale».

Politica industriale assente quindi e senza una politica industriale, non è un paradosso, non può darsi nemmeno una politica per la sostenibilità...

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