[01/08/2011] News

La civiltà dell'empatia, di Jeremy Rifkin

Mondadori, 2010

L'ultima fatica di Jeremy Rifkin richiama alla memoria la famosa Teoria del mondo piccolo, inaugurata nel 1967 dal celebre sociologo statunitense Stanley Milgram, che riprese a sua volta il concetto dei "sei gradi di separazione", ipotesi - ormai confermata anche sperimentalmente da una ricerca sul mondo del web da parte della Columbia University - per cui una persona qualsiasi è divisa da un perfetto, qualsiasi altro sconosciuto da una catena di conoscenze comprendente non più di cinque intermediari. Un mondo fatto paese: affascinante.

Secondo l'economista statunitense, durante l'intera durata della specie umana su questo pianeta l'uomo ha portato avanti il paradosso costituito dal raggiungimento di società sempre più complesse e più interconnesse, da quelle di tipo agricolo, a quelle industriali, fino alle post-industriali, che a loro volta hanno però innalzato sempre più l'asticella del consumo di risorse necessario per mantenere in piedi cotanta complessità, finendo infine per depauperare la base stessa sulla quale la loro esistenza materialmente si fondava, e terminando così bruscamente la loro corsa verso il futuro.

«La coscienza empatica si è sviluppata lentamente lungo il corso dei 175mila anni di storia dell'umanità: a volte è fiorita, per poi regredire per lunghi periodi. Lo sviluppo dell'empatia e lo sviluppo del sé vanno di pari passo, e accompagnano la crescente complessità e sete di risorse delle strutture sociali che caratterizzano l'esistenza umana».

Solo le civiltà che sono riuscite a rinnovare, nel corso della loro storia, il paradigma energetico che legava il loro destino all'abisso entropico nel quale da sole sprofondavano sono riuscite a garantirsi la sopravvivenza. Secondo Rifkin, adesso sta alla nostra civiltà superare questa prova del nove, dando luogo ad una nuova convergenza tra rivoluzione energetica e comunicazionale, per determinare «una riconfigurazione non solo della società, dei ruoli e delle relazioni sociali, ma anche della stessa coscienza umana».

Mentre basiamo il nostro modo di interpretare la società che ci circonda tramite il metro consegnatoci dai grandi pensatori di stampo illuminista come Smith, Locke e Hobbes che, spesso fraintesi ed estremizzati oltre i loro intenti originari, ci hanno consegnato un disegno della natura umana resa intrinsecamente utilitarista ed egoista, votata solo al perseguimento dell'interesse personale quando invece - come sembrano mostrare alcune tra le più o meno recenti scoperte scientifiche in campo neurobiologico, sui neuroni specchio o la natura del linguaggio - la natura umana sarebbe essenzialmente empatica (intendendo con "empatia" la «disponibilità da parte dell'osservatore a diventare parte dell'esperienza dell'altro ed a condividere le emozioni da essa scatenate»), tanto da far meritare all'uomo l'appellativo di "animale più sociale", principe dell'organizzazione sociale che caratterizza un po' tutte le scimmie antropomorfe.

Il percorso che porta alla coscienza biosferica alla quale, secondo Rifkin, deve tendere la società tutta per sopravvivere a se stessa è (questo è certo) pieno d'insidie, e non è affatto scontato che si riesca a percorrerlo per intero. Internet, con tutte le sue potenzialità, permette una connessione tra uomini mai realizzata prima nella storia, che potrebbe portare ad un livello di empatia globale altrettanto straordinario.

La rete del web però, ingabbia tra le sue maglie solo una minoranza dei cittadini del mondo, quando il resto della popolazione mondiale è ancora alle prese con ben altri problemi quotidiani, tra i quali spicca il riuscire ad avere una ciotola di cibo per riuscire a sfamarsi ogni giorno. Ma addirittura all'interno del cuore dell'auspicata società della condivisione si annidano molti ed importanti trabocchetti: l'aumento dell'empatia corre di pari passo con la progressiva consapevolezza di sé, che rischia però di affogare tra i flutti di una società sempre più massificata, vanitosa ed al tempo stesso individualista dove - come nota anche l'autore - «il desiderio di fama è diventato una tale ossessione fra i giovani da stimolare discussioni e dibattiti tra un numero crescente di psicologi e sociologi [...]. La ragione risiede, almeno in parte, nel mezzo: il solo fatto di poter usare Internet per richiamare l'attenzione su di sé è un buon motivo per farlo».

Quella proposta nel libro, dunque, rimane per ora solo un'interpretazione della società, con una teoria valida come altre, e come altre soggetta a punti deboli che ne minano le basi. La più lampante rimane quella mossa da chi sottolinea come la storia dell'uomo, fin dalle sue origini, sembra sia stata quasi sempre scritta col sangue dei propri simili; Rifkin ribatte prendendo a prestito una citazione di Hume, secondo cui "i periodi di felicità sono le pagine bianche della storia": «i racconti di disastri sono inattesi e perciò suscitano allarme ed interesse. Anche se la vita di tutti i giorni è punteggiata di sofferenze, per la maggior parte trascorre fra centinaia di piccoli gesti di generosità e gentilezza». Un'affermazione verso la quale si può essere d'accordo, ma che non costituisce certo un dato di fatto assoluto.

Alla fine della lettura si rinnova un eterno dilemma, ritrovandosi di nuovo a confronto la mai soluta contrapposizione tra la visione hobbesiana dell'"homo homini lupus", per la quale solo la vita in società la e la società stessa sono l'unico freno che impedisce agli uomini - oltremodo egoisti per natura - di sbranarsi tra di loro, e quella rousseauiana lettura della natura umana originaria come quella di un "buon selvaggio", corrotto da una società stipulata con un contratto sociale fraudolento.

Rifkin riporta quindi solo un lato della medaglia: legittimamente, certo, ma la sua presa di posizione - indipendentemente dai giudizi di valore individuali - rimane una delle visioni possibili dello stesso problema: come al solito, si rende reale ciò che si vuole rendere tale.

 

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