[01/08/2011] News

I delfini di fiume dell’Amazzonia macellati per pescare i pesci gatto

Uno dei due maggiori progetti di ricerca in corso nella Reserva de desenvolvimento sustentável Mamirauá (Rdsm), nell'Amazzonia brasiliana è dedicato a due specie di delfini di fiume, il boto e il Tucuxi. Il Projeto Boto, avviato nel  1993, è progressivamente cresciuto ed attualmente dispone ora di un proprio centro di ricerca e di una costante presenza di ricercatori sul campo.

Il Progetto Boto studia tutti gli aspetti della vita dei misteriosi delfini fluviali dell'Amazzonia brasiliana, in relazione anche al loro rapporto con gli uomini, incluse le interazioni determinate dalla pesca. Proprio quest'ultimo aspetto, la pesca, ha rivelato ai ricercatori un nuovo ed inaspettato pericolo per l'enigmatico boto, che è stato a lungo protetto dalla persecuzione umana a causa di vari miti e superstizioni che circondano la vita di questo cetaceo amazzonico, compresa la convinzione che chi ne uccide uno sarà perseguitato dalla sfortuna: grazie a tabù e alle riserve naturali, la specie ha finora prosperato in gran parte del bacino amazzonico.  Ma ora il team del Pojeto Boto ha scoperto che questa tutela "culturale" è largamente scomparsa, e che l'inia amazzonica è minacciata da un'insolita forma di pesca, alimentata dalla richiesta crescente di carne di un pesce gatto chiamato piracatinga.

Il piracatinga è un necrofago che si ciba dei resti di altri animali morti (compresi gli esseri umani annegati); soprannominato "avvoltoio d'acqua", e per questo non è considerato commestibile in Brasile. Per superare il tabù del pesce mangia-cadaveri, in diverse città brasiliane il pesce gatto viene spesso venduto come "douradinha", cioè orata. Molti colombiani e brasiliani non si rendono conto che stanno mangiando un pesce necrofago, che sta invece invadendo molti supermercati, come molti dei principali mercati di pesce.

Ma il piracatinga è molto apprezzato soprattutto nella vicina Colombia, e i pescatori e commercianti di pesce attraversano il confine alla sua ricerca. Purtroppo, i loro metodi di pesca utilizzano i boto che vengono uccisi, macellati ed usati come esche per catturare i pesci gatto necrofagi.

Ecco come viene descritto questo nuovo tipo di pesca distruttiva ed illegale: «in piedi nell'acqua durante la notte, con una caratteristica scatola di legno, un grosso pezzo di carne di boto è sommerso e imbevuto per  attrarre i piracatinga. I pesci vengono a rapidamente a dare morsi dalla carcassa, adescati dal profumo di grasso e di sangue. Una volta all'interno della scatola, i piracatinga di grandi dimensioni vengono intrappolati e possono essere prelevati a mano, mentre la conformazione della trappola permette a quelli più piccoli di sfuggire. Per ottenere la carne di boto, i cacciatori circondano con le reti  i gruppi di delfini in baie e insenature, quindi prelevano gli individui dall'acqua con arpioni. I boto  vengono poi spesso legati agli alberi con una corda fino al momento in cui non serviranno».

L'intera pratica è illegale e aborrita dalla grande maggioranza della popolazione locale. Macellando un boto adulto, con questa tecnica di doppio bracconaggio fluviale, in una notte i pescatori colombiani possono catturare più di una tonnellata di piracatinga. Secondo i ricercatori del Projeto Boto, ogni anno nell'area fluviale nelle vicinanze della città brasiliana di Tefé, che rappresenta solo una piccola parte dell'areale dei boto, vengono uccise 1.650 Inia geoffrensis. Ma la dimensione reale di questo massacro di delfini di fiume  rischia di essere molto maggiore, dato che la pesca al piractinga è ormai diventata comune nel bacino del Rio delle Amazzoni.

«A memoria d'uomo, i boto sono sempre stati protetti dalla caccia in gran parte del bacino dell'Amazzonia da vari miti, che narrano come in loro si reincarnino gli esseri umani, o che la notte escano dall'acqua e mettano incinte le donne della foresta mentre dormono - spiegano gli scienziati brasiliani e britannici. Poco dopo l'alba del nuovo millennio ci siamo accorti che questa protezione si stava sgretolando e, nel 2004, era evidente che un gran numero di delfini venivano arpionati nei dintorni della riserva Mamirauá ed altrove. Le prove della strage sono ormai ovunque. La maggior parte di noi, li ha trovati arpionati, mutilati e morenti, alcuni dei quali con la coda legata ad un albero per essere usati come scorta».

I ricercatori sono riusciti a salvare uno dei delfini, un giovane boto conosciuto come "Vani" (nella foto) che era stato notato mentre nuotava stranamente da solo nel fiume, con la pinna dorsale danneggiata e cicatrici sul corpo. Quando una settimana dopo sono riusciti a catturalo, gli scienziati sono rimasti shoccati: le mutilazioni e le ferite erano state inflitte con un coltello. Inoltre, Vani aveva tagli sulla pelle ed una corda legata intorno alla coda che aveva provocato una ferita così profonda da poterlo mutilare per mancanza di afflusso di sangue. Evidentemente il giovane boto era riuscito a liberarsi dalla sua prigionia prima di essere macellato ed utilizzato come esca. Dopo essere stato liberato dalla cima e curato, Vani dopo un anno è stato avvistato nel fiume ancora sano e salvo.

Il Projeto Boto è fortemente coinvolto nel contribuire a mettere fine all'inumano bracconaggio di delfini e caimani, e sta lavorando con l'Idsm e il  Cnpq brasiliani per identificare i cacciatori di boto, alcuni dei quali sono già stati colti in flagrante. «Una delle difficoltà - spiegano i ricercatori - è che queste uccisioni avvengono la notte nelle foreste allagate, così è difficile rilevarle. Inoltre, gli uomini che sono coinvolti spesso minacciano la vita di chiunque tenti di fermarli e naturalmente non possiamo mettere in pericolo i nostri stagisti. Una cosa a nostro favore è che questi arpionamenti vengono attuati da una piccola minoranza, e che la popolazione locale si oppone veementemente a tutto questo».

Il Projeto Boto denuncia che «allo stato attuale non è stata adottata nessuna azione significativa per evitare questa pratica disumana e insostenibile, nonostante i molti sforzi per sensibilizzare l'opinione pubblica». I ricercatori comunque continuano a collaborare con le autorità brasiliane, «nella speranza di porre fine alla caccia che, al ritmo attuale, rischia di minacciare la sopravvivenza del boto come specie. Siamo ottimisti sul fatto che la caccia finirà per fermarsi, ma ci chiediamo quanti delfini subiranno ancora questa brutale sofferenza prima che questo accada».

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