[15/07/2011] News

Gli esperti rimangono scettici sullo sfruttamento delle terre rare del fondale oceanico

All'inizio di luglio, Nature Geoscience ha pubblicato i risultati dello studio "Deep-sea mud in the Pacific Ocean as a potential resource for rare-earth elements" - condotto da ricercatori giapponesi - che rivelava la presenza nei fondali oceanici di grandi giacimenti di terre rare, indispensabili per l'elettronica di consumo, l'high-tech, le energie rinnovabili ed in generale per sviluppare tecnologie per la "green economy".

I ricercatori giapponesi sottolineavano le difficoltà di accesso a queste risorse, ma i media hanno tradotto e "volgarizzato" la cosa presentandola come un enorme tesoro nascosto negli abissi fangosi dell'oceano, pronto ad essere raccolto. Effettivamente si tratta di depositi di risorse naturali diventate essenziali, e che potenzialmente valgono miliardi e miliardi di dollari; una scoperta che potrebbe stravolgere il mercato delle terre rare, attualmente egemonizzato e controllato dalla Cina.

Ma gli esperti ora buttano acqua sul fuoco dell'entusiasmo, sollevando diversi problemi. A cominciare dal fatto che il fango ricco di terre e metalli rari si trova a migliaia di metri sott'acqua nell'Oceano Pacifico. John Matson su Scientific American spiega che «l'estrazione di risorse provenienti da tali profondità comporta ostacoli tecnologici, economici e normativi, che dovrebbero essere superati prima che le terre rare delle profondità del mare diventino l'ingrediente dei convertitori catalitici del domani, delle turbine eoliche e degli schermi dei computer».

Per questo, secondo gli esperti, ci vorranno molti anni, se mai ci si riuscirà, prima di poter sfruttare quelle risorse nascoste nei fondali marini. I ricercatori giapponesi avevano analizzato oltre 2.000 campioni di sedimenti del fondale dell'Oceano Pacifico, trovando che ci potrebbero essere più di 100 milioni di tonnellate di composti di terre rare. Una stima preliminare ha dimostrato che in 1 Km2 di fango del fondale marino intorno al sito di campionamento 1222 potrebbe fornire un quinto del fabbisogno annuo mondiale di terre rare. Matson però smorza gli entusiasmi: «la realtà è che l'estrazione di quel fango non è ancora fattibile per una serie di motivi».

A spiegare il perché ci pensa Porter Hoagland, senior research specialist in marine policy alla Woods hole oceanographic institution (WhoiI): «a questo punto, caratterizzare questa scoperta come qualcosa che è una risorsa economica potrebbe essere un'esagerazione. Ci sono una serie di fattori economici che non rendono conveniente questo tipo di lavoro di recupero offshore». Per esempio, accedere alle terre rare nel sito 1222 richiederebbe di tirarle su dal fondo marino dopo aver scavato 70 metri di sedimenti, filtrando poi acqua e fango, separare le terre rare - che costituiscono meno dell'uno per mille del sedimento - e riscaricare il resto del materiale nel fondale marino. Questo richiederebbe nuove tecnologie che permettano di effettuare un lungo ed esteso lavoro a grandissime profondità, ma anche enormi investimenti. «Quindi - dice Matson - ci dovrebbe essere un incentivo economico significativo per accedere alle risorse del fondo marino», sottintendendo che in un periodo di crisi come quello attuale sarà difficile averli per molto tempo.

«Ecco perché io non sono sicuro che gli elementi delle terre rare siano di per sé sufficienti a prevedere tutto questo - dice a Scientific American James Hein, dell'US geological survey. Dopo tutto, il mercato globale delle terre rare è relativamente piccolo, dato che attualmente gestisce circa da 2 miliardi ai 3 miliardi di dollari all'anno: secondo un recente rapporto di Ernst & Young, i mercati dei metalli come il rame sono decine di volte più grandi. Sarei davvero sorpreso se a questi giacimenti venisse data molta attenzione come potenziale risorsa nel breve termine. Le difficoltà sono davvero molto elevate e le questioni ambientali saranno altrettanto grandi».

Il problema è infatti che nessuno sa quali sarebbero i potenziali impatti su vasta scala sugli habitat e gli ecosistemi del fondale marino a 4.000 - 5.000 metri, dei quali conosciamo pochissimo, derivanti da un dragaggio così esteso e prolungato. A spiegarlo ci provano dall'università della Hawaii, a Manoa: «essenzialmente, questa sarebbe un'operazione "strip-mining" nella quale verrebbero risucchiati un sacco di sedimenti dal fondale marino su grandi aree, il che ovviamente distruggerebbe le comunità che vi risiedono . Questi ecosistemi, almeno quelli che sono stati esplorati, hanno una scarsa biomassa ma un'elevata biodiversità. E, dopo essersi installate in un ambiente stabile, non sono adattati a subire grandi disturbi».

La pensa così anche Cindy Van Dover, un'oceanografa della Duke University: «4.000 metri nelle profondità dell'oceano è una lunga strada verso il basso, e non sappiamo come mitigare gli impatti ambientali significativi o come ripristinare l'ecosistema, e nemmeno se sarebbe possibile ripristinarlo. Non capiamo molto di quello che sta succedendo laggiù, dal punto di vista ecologico».

Molti dei siti campionati dai ricercatori giapponesi sono in acque internazionali e ricadono sotto la giurisdizione dell'International seabed authority, il che significa che qualsiasi proposta di ricerca mineraria per estrarre le terre rare dai fondali oceanici dovrà probabilmente affrontare un lungo iter normativo. «Per fare queste cose è necessario un processo molto lento e ponderato - sottolinea la Van Dover. Nelle acque internazionali le cose non si fanno in una notte».

E' chiaro che, se diventasse economicamente percorribile estrarre terre rare dal fondo del Pacifico, le esigenze degli ecosistemi di profondità dovranno essere bilanciate, da parte delle imprese minerarie, con benefici economici e sociali. Smith non nasconde che «se la domanda umana di metalli continua ad essere alta come è, o a salire, ci sarà una continua domanda di questi metalli e terre rare. Coinvolgere gli scienziati marini nella fase iniziale può contribuire a garantire che lo sfruttamento venga effettuato in maniera responsabile. Personalmente, io preferirei non vedere riempito di rifiuti il mare profondo, ma credo che dobbiamo essere realisti».

Matson su Scientific American conclude: «per il momento gli ostacoli all'estrazione terre rare dal fondo marino sono di grandi dimensioni. Se il fango profondo dell'oceano non è mai stato sfruttato, non sarebbe certo la prima volta in cui le risorse del fondo marino vengono molto strombazzate senza poi dare un seguito a livello industriale». Tanto che Hoagland dice «il mio scetticismo deriva da anni di grandiose pretese, quando poi nulla è veramente accaduto. Tutto questo mi dice che non è conveniente andare a prendere questa roba». 

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