[14/07/2011] News

Uno per tutti, tutti per l'Euro(pa)

L'Unione Europea, moderno stendardo del Vecchio continente, rappresenta nel suo complesso l'economia più florida del mondo. Invidiati per il nostro modello sociale (seppur in netto declino) e culla della democrazia, i cittadini del mondo ci invidiano. Ancora. Si dovrebbe partire forse da considerazioni di questo stampo prima di ipotizzare vari e diversificati regressi dell'Europa, individuati come sempre più prossimi e tutti comunque catastrofici. Che si tratti di un lento ma deciso agonizzare di fronte ai colpi della globalizzazione, o un piuttosto improvviso quanto deflagrante scoppio dell'Euro, con relativo affondamento dell'Unione.

Proprio l'Unione Europea, con tutte le sue feroci contraddizioni interne, rimane uno dei massimi beni di quest'accozzaglia di Stati nazionali che per secoli hanno belligerato tra loro, in un fiume di sangue che ha raggiunto l'acme in due guerre mondiali; l'Ue ha posto le basi per una convivenza pacifica che abbia stabili basi nel tempo, ed è questo forse il più notevole dei benefici che sia riuscita a portare. Sarebbe bene non perdere mai di vista quali potrebbero essere tutte le possibili conseguenze di un suo disfacimento.

Nonostante tutti i suoi punti di forza, l'Europa si trova ora dinnanzi la più grande prova che finora le sia toccata in sorte di affrontare: la minaccia costituita dai debiti sovrani dei suoi Stati, o meglio il rischio degli attacchi speculativi verso i quali tali debiti la espone, ha portato l'Ue all'empasse. Il Pil di quelle nazioni periferiche dove per prime è scoppiato il bubbone del debito (Grecia, Irlanda, Portogallo), con relativo sciacallaggio al seguito, rappresentano insieme appena il 5% del Pil europeo: può il restante 95% della nave colare a picco, quando è poco più di una scialuppa a mostrare delle crepe?

Evidentemente qualcosa non ha funzionato, tanto che il contagio sta infettando sempre più in profondità altri Stati periferici con debolezze strutturali e di debito, come la Spagna e la nostra Italia. Nazioni di importanza relativa infinitamente maggiore per la zona euro (l'economia italiana rappresenta la terza forza, dopo Germania e Francia, in tale area), e con un debito impossibile da ripianare da parte degli altri Stati "sani" che ne fanno parte.

L'Unione Europea, casa mater a metà, non è stata fin'ora in grado di arginare il problema, frenata dai continui stop dettati dai singoli Stati membri e da una Bce resa completamente indipendente dal potere politico. La mancanza di coesione è la sua spina nel fianco.

Con un orizzonte di pensiero ed azione sempre più offuscato dall'emergenza di una situazione che sta sfuggendo di mano, l'Europa si è fatta convincere dalle tentazioni del libero mercato, individuando la soluzione al problema nei tagli continui allo stato sociale - quello (un tempo?) invidiabile - ed alle privatizzazioni alla cieca (più annunciate che concrete...), svendendo pezzi delle proprie infrastrutture, della propria identità quando non del proprio territorio. Prestando il fianco alle agenzie di rating, all'Fmi ed ai colpi interni provenienti dalla Bce e dai suoi stessi ed egoisti Stati membri, l'Europa svende anche quella sovranità politica che dovrebbe anzi ampliare. Sicuramente con altri mezzi, in un'ottica di vera sussidiarietà e con strumenti realmente democratici, ma che dovrebbe ampliare.

Nessuno, all'interno o al di fuori dell'Europa, può permettersi un fallimento dell'Unione o della moneta unica, uno strumento che funge da semi-unico vero collante, e del quale dunque non sembra proprio si possa fare a meno, almeno al momento. I principali creditori dei debiti sovrani che rischiano di scoppiare sono infatti inter nos, negli Stati dell'Unione. Non solo: prendendo ad esempio la Germania, vero motore della crescita europea ed un'economia che si basa molto su di una bilancia commerciale perennemente in positivo, chi ha come principale partner economici? Gli altri stati europei. Allargando poi l'orizzonte verso le grandi distanze, si può immaginare quali sarebbero le conseguenze di una debacle dell'economia più importante al mondo: un disastro per tutti, dalla Cina agli Usa.

Di fronte ad una sfida globale, non si può evitare di dare risposte globali. L'idea di collettivizzare almeno parte del debito degli Stati con conti poco virtuosi grazie a degli eurobond può essere l'unica via per tamponare nell'immediato l'irrequietezza dei mercati. I cittadini dei Paesi economicamente più stabili potrebbero sopportare tale manovra, di fronte all'alternativa del baratro. Sarebbe comunque una mossa provvisoria, utile per guadagnare fiato e tempo per pensare ad una contromossa davvero incisiva.

Svendere e privatizzare a suon di slogan tatcheriani ("non ci sono alternative"), è stato più volte dimostrato nei più o meno recenti casi di default nazionali, non serve a molto; al limite, la ripresa che ne può scaturire riporterà presto sulla strada della crisi e verso nuovi shock, inevitabili in questo insostenibile modo di crescere e produrre. Al prezzo, sia chiaro, di una concentrazione della ricchezza in mani sempre più scarse ed una forbice di diseguaglianza economica e sociale sempre più ampia, come mostra ampiamente il trend della distribuzione della crescita. La crescita delle disuguaglianze diventa - a lungo termine - un problema anche per i più abbienti, e non può essere trascurata: inoltre, senza uno stato sociale che supporti un incremento della domanda interna, la ripresa non può che allontanarsi.

Gli Stati della zona euro, come da più parti si sottolinea (per ultimo Krugman con un intervento dal titolo "Why Italy? Why not America?", sul suo blog del New York Times), hanno un problema in più rispetto - ad esempio - agli Usa: non hanno possibilità di usare la leva rappresentata da una politica monetaria accomodante ed eventuali svalutazioni della moneta. La Bce può essere definita un'istituzione monetarista, e per statuto ha come unico scopo quello di mantenere stabili i prezzi, con un'inflazione attorno al 2%. Questo accanimento, portato avanti anche con un recente aumento dei tassi d'interesse e del costo del denaro per mano di Trichet, porta a volte a perdere di vista il contesto.

L'inflazione, se moderata e tenuta sotto controllo, per molti economisti non è sempre quel mostro sacro che si vuol far credere: senza arrivare agli esempi estremi dell'Italia anni '70 (con un'inflazione anche al 25%), una crescita di qualche punto del tasso d'inflazione - almeno per un po' di tempo - permetterebbe di diminuire il peso del debito e degli interessi che gravano sui conti sempre più critici degli Stati periferici, mentre un Euro debole permetterebbe la parziale ripresa delle esportazioni. L'aumento del costo delle materie prime e dell'energia importata potrebbe altresì incentivare finalmente la costruzione di un'industria locale per le energie rinnovabili, oltre che una crescita dell'efficienza nella produzione e nel riciclo.

Il rigore duro e puro può presto rivelarsi solo una toppa, e controproducente nel lungo periodo. Il problema sta soprattutto nella sostenibilità del debito - fisiologico per la crescita - e non solo nel suo valore assoluto. Qui, dunque, si apre un bivio. Da una parte, con una crescita del Pil più sostenuta, il problema del debito sarebbe sicuramente ridimensionato. Ma la crescita della produzione, sia per la domanda interna che per le esportazioni, non può essere indifferenziata, sia per motivi ecologici che prettamente economici. Il rilancio della produttività e dell'occupazione, altro nodo fondamentale, deve passare attraverso scelte ponderate e soprattutto partecipate, con l'interesse della collettività nel mirino. Si dica "le risorse disponibili sono queste: come le distribuiamo e tuteliamo?", e se ne discuta insieme, senza decisioni unilaterali.

Con un interrogativo che però, tra i tanti che rimangono, salta sempre più all'occhio. Il Pil, ormai è ufficiale, non è più ritenuto un indicatore di sviluppo appropriato. Ugualmente, viene utilizzato sempre e solo quello per calibrare le scelte più importanti; il debito o il deficit di una nazione, ad esempio, sono rapportati al suo Pil, ed in base a tale rapporto prendono significato. Dato che uno sviluppo a breve termine di un nuovo metro di giudizio, ed un relativo abbandono del Pil, sembrano fuori luogo in un contesto mondiale, perché dunque non concentrarsi  sulla definizione di un nuovo e credibile indice made in Europe(sulla base di studi già prodotti peraltro e proprio in Ue come quello francese) e cominciare a misurare - almeno per la parte di debito dei Pesi euro, comunque maggioritaria, che pesa nelle pance degli altri Stati dell'Unione - questo debito in rapporto a tale indice? Sarebbe un passo concreto verso un modo sostenibile di riconvertire l'economia, ed un importante segnale di innovazione verso l'esterno. Se questo percorso venisse poi imboccato anche dagli altri Stati extra-Ue, si potrebbe poi avere più d'una sorpresa a riguardo alla sostenibilità dei vari e singoli debiti nazionali.

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