[11/07/2011] News

Sud Sudan: un nuovo Stato in vendita?

Le multinazionali ed i cinesi si accaparrano terre a 0,3 euro all'ettaro

Il Sud Sudan è diventato formalmente indipendente con una grande e liberatoria festa nella nuova capitale: Juba. Ma i problemi cominciano ora e sono immensi: il Paese è distrutto dalla guerra civile col Sudan, percorso da conflitti etnico-tribali e per il petrolio che dovrebbe garantire un suo rapido sviluppo ma che è già in mano a multinazionali straniere. Il nuovo Stato africano dispone anche di un grande potenziale agricolo che, paradossalmente, insieme al petrolio potrebbe essere una maledizione incombente sul suo già incerto futuro.

Gli investitori stranieri hanno già fiutato l'affare e si stanno precipitando a Juba per non farselo scappare. Secondo un recente rapporto dell'ong Norwegian People's Aid «dal 2007 il 9 per cento della superficie totale del nuovo Stato è già stata attibuita a marchi stranieri. Cioè 5,74 milioni di ettari».

Philippe Hugon, directeur ricerca e responsabile per l'Africa dell'l'Institut des relations internationales et stratégiques (Iris) ha detto però all'agenzia stampa umanitaria dell'Onu, Irin, che «è molto difficile verificare questo genere di informazioni, a causa del carattere segreto delle transazioni», una segretezza che la dice lunga su come hanno agito in questi anni di caos post-conflitto gli speculatori e le multinazionali che hanno approfittato dell'assenza delle istituzioni e di regole per accaparrarsi a basso costo la terra fertile.

Secondo quanto scrive Irin «un'impresa texana avrebbe così acquistato 600mila ettari sud-sudanesi per la modica somma di 25mila dollari (17. 500 euro). Il prezzo all'ettaro assomma quindi a ... 3 centesimi di euro! Secondo il think tank stastunitense Oakland Institute la società Nile Trading and Development Inc avrebbe ottenuto in questo modo il diritto di sfruttare tutte le risorse naturali di questo immenso territorio per 49 anni ed avrebbe anche un'altra opzione su altri 400mila ettari».

Marc Lavergne, un geografo che dirige il Centro studi di documentazione economiche, giuridiche e sociali dell'Egitto e del Sudan dice che si tratta di una cosa enorme: «Questa azienda ha dovuto ottenere un mucchio di documenti che non valgono granché. Il suo obiettivo è chiaramente quello di frazionare le terre acquisite e di rivenderle, perchè nessuno è in grado di mettere a frutto 600.000 ettari in Sudan. C'è un evidente obiettivo speculativo. Questo genere di accordi sono firmati da compagnie ombra che vogliono approfittare dello stato di illegalità».

Ma gli americani non sono certamente soli: intorno alla disastrata culla del Sud Sudan si sono subito affollate imprese indiane, canadesi ed ugandesi che hanno già acquistato terre coltivabili. Lo studio di Norwegian People's Aid dice che sono decine e prende in considerazione solo le transazioni legate all'agricoltura, alla forestazione ed al turismo. Nel rapporto mancano gli accordi con le compagnie minerarie e petrolifere, due settori che interessano molto ai cinesi che, dopo aver sostenuto ed armato il regime islamico sudanese contro i ribelli cristiano-animisti del Sud Sudan ora si presentano come se nulla fosse a Juba ad offrire amicizia e investimenti, soprattutto nei giacimenti di petrolio.

Pechino ha già nominato un console cinese per il commercio con il Sud Sudan, Zhang Jun, che ha spiegato candidamente al giornale spagnolo Abc: «Il petrolio rimane la spina dorsale dell'economia del nord e delò sud. Quindi aspettatevi che proseguiremo le nostre eccellenti relazioni con i due Stati».

La Cina già il 9 luglio, il giorno della dichiarazione dell'indipendenza del Sud Sudan, ha aperto la sua ambasciata a Juba ed è stato Jiang Weixin, inviato speciale del presidente cinese Hu Jintao ad annunciare il riconoscimento del governo del Sud Sudan del presidente Salva Kiir Mayardit, dichiarando che «la Cina si impegna ad aiutare al meglio questo nuovo Stato a svilupparsi. La Cina rafforzerà i suoi contatti politici con il Sud Sudan ed amplierà la sua cooperazione pragmatica in diversi settori», che tradotto dal linguaggio diplomatico cinese vuol dire: scordiamoci il passato e siamo disposti a fare affari con voi qualunque tipo di regime vogliate installare.

D'altronde Jiang ha avuto la faccia tosta di affermare che «la nascita della Repubblica del Sud Sudan rappresenta il compimento di un processo pacifico che ha messo fine alla guerra civile». Peccato che il regime comunista di Pechino in quella spietata e sanguinaria guerra fosse costantemente dalla parte del regime del Sudan.

Ma ora i cinesi faranno probabilmente da pacieri tra Nord e Sud, lo stesso Jiang ha ricordato che «ci sono ancora dei negoziati in corso basati su problemi in sospeso tra il Sud Sudan e il Sudan. Siamo convinti che le due parti devono dare la priorità alla pace e regolare i problemi attraverso i negoziati sulla base della mutua comprensione». I cinesi (e non solo) pensano allo Stato cuscinetto di Abey, rivendicato da entrambi, dove la guerra fredda e la guerriglia tribale in corso tra Sud e Nord impedisce l'accesso a ricchi giacimenti petroliferi. Dall'inizio del 2001 almeno 2.400 sud-sudanesi sono morti in scontri tra bande tribali.

A proposito di ex nemici diventati improvvisamente amici-da-sempre, si sono fatti avanti anche i russi. Il presidente Dmitri Medvedev ha inviato un messaggio a Kiir per felicitarsi per l'indipendenza e per ricordargli che «gli ambienti del business russi manifestano vivo interesse per la cooperazione con i loro partner sud-sudanesi, soprattutto nella produzione di idrocarburi, nell'energia e nell'agricoltura. Le istituzioni formative russe, che possiedono una ricca esperienza di cooperazione con i Paesi africani, sono pronte ad aiutare il Sud Sudan a formare degli specialisti nazionali per l'economia e la sfera sociale».

In una situazione come questa, dove le sirene del busimess internazionale cantano e i kalashikov crepitano, regolamentare la vendita delle terre non è certo la prima priorità del nuovo governo di Juba. Secondo Lavergne «per il momento, il presidente Kiir non ha nessuna determinata politica agricola. Dal 1970, le terre appartengono allo Stato. Ma non c'è alcuna ragione perchè i titoli di proprietà del Nord tutto un colpo decadano. Per il momento il Sud Sudan non è in grado di distribuire le sue terre. Ma alla fine, potrà scegliere o meno se restituire le terre alle tribù».

Hugon è d'accordo: «La popolazione è spesso esclusa dai negoziati, anche se ha certamente un diritto di utilizzo, ancestrale e non scritto, sulle sue terre». In questo caos, quale sarà la politica fondiaria del nuovo Stato? Per Lavergne «un aspetto resta certo: dalla locazione delle terre e dalla speculazione su di loro non ci guadagnano mai le popolazioni locali. Il Sud Sudan è un Paese molto eterogeneo. A partire dal momento in cui il contratto è firmato, due scelte si offrono loro: o diventano operai agricoli o raggiungono le bidonvilles della capitale, Juba. E' quel che succede già al Nord. Non c'è quindi nessuna ragione perchè non succeda anche al Sud. Le popolazioni più minacciate sono le tribù nomadi, gli allevatori di mucche o i coltivatori di mais. Una preoccupazione molto lontana dagli investitori stranieri».

Sembra di essere tornati indietro tempi della colonizzazione del Far West americano, solo che i coloni bianchi (e gialli) si spostano su Jet privati e le tribù sono armate di kalashnikov che utilizzano per scannarsi.

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