[25/05/2011] News

L’incidente di Fukushima e la sicurezza nucleare

Alcuni autorevoli commentatori  hanno presentato l'incidente di Fukushima come figlio dell'azione devastante del terremoto e dello tsunami, e poiché neanche una società tecnologicamente molto avanzata come quella giapponese è in grado di fronteggiare gli eventi estremi della natura ne hanno concluso che si deve rinunciare al nucleare.  Certo, sembra una pazzia realizzare centrali nucleari in un'area come quella giapponese, dove si scontrano quattro placche tettoniche, sicura garanzia di terremoti devastanti. Ma un'analisi più attenta di quel che è successo mette in discussione le premesse di quella conclusione. Infatti, gli edifici della centrale atomica hanno retto al terremoto - i tetti sono saltati per l'esplosione delle bolle di idrogeno formatesi coll'inarrestato progredire del surriscaldamento dei noccioli dei reattori - e le tremende accelerazioni subite dalle strutture dei reattori, causa sicura di gravi lesioni dovute soprattutto ai fenomeni di risonanza, avrebbero però dispiegato nel tempo gli effetti di rischio.

Che cosa è andato storto allora, che cosa ha portato alla fusione dei noccioli? Si deve risalire al lay out dell'impianto, in particolare alla cattiva disposizione dei servizi ausiliari d'emergenza, che, non adeguatamente protetti, investiti dall'onda dello tsunami - che peraltro è arrivata allo stabilimento della centrale all'altezza delle gambe, come si vede dai documentari - non sono riusciti a entrare in funzione quando avrebbero dovuto, quando cioè il black out elettrico della rete causato dal terremoto ha messo fuori uso gli ordinari sistemi di raffreddamento del nocciolo del reattore. E fa riflettere anche il fatto che il molo di protezione nel porto a servizio della centrale fosse alto sei metri, quando proprio la Tepco aveva documentato un terremoto della stessa magnitudo di quello dell'11 marzo, avvenuto nella stessa area 115 anni prima con un'onda di tsunami alta più di 10 metri.

Insomma, il riferimento allo scatenarsi delle forze incontrollabili della natura rischia di essere un esercizio retorico se non si tiene conto della sciatteria progettuale (lay out) e della vocazione a tirare giù i costi (l'altezza del molo) che travalicano, non davvero solo in Giappone, ogni aprioristica esaltazione dell'eccellenza tecnologica raggiunta da una società.

E' perciò francamente incomprensibile l'ottimismo, ancorché relativo, che trapelava da alcuni comunicati della Tepco nei giorni scorsi.

Quanto agli effetti sanitari, aspetto di gran lunga più rilevante, la tragedia di Fukushima, con i livelli di radioattività registrati al suolo e nel mare, con i duecentomila cittadini evacuati nel raggio dei venti km, verdure e ortaggi contaminati nel Giappone del Sud a centinaia di km dalla centrale, con lo Iodio nell'acqua potabile di Tokyo, consente purtroppo di affermare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni molte di più di quelle del terremoto e dello tsunami. Gli effetti somatici della radioattività - cancri e leucemie - hanno un carattere statistico, sono tanto più estesi quanto maggiore è il numero delle persone esposte. E' come un'arma che ruota sparando in mezzo alla folla, non si sa chi verrà colpito, ma le vittime ci saranno e saranno tante  quanto più numerosi sono i presenti. E quelle migliaia di vittime che farà la radioattività, ogni anno sull'arco di trent'anni, non le vedrà nessuno, non ci emozioneranno certo come le immagini che ci riportavano i corpi senza vita travolti dalle onde dello tsunami.

Ma quali sono allora i livelli di sicurezza raggiunti dalla tecnologia nucleare?

All'alba dell'era del petrolio, siamo nel 1960, le agenzie internazionali dell'energia riportavano il dato della produzione nucleare: 1 Mtep. Nel giro di poco più di un decennio una tumultuosa crescita degli ordinativi portò quel dato a ben 146 Mtep.

Già, ma che cosa aveva consentito quella formidabile espansione che durò circa un ventennio? Certo Atoms for peace, la campagna lanciata nel 1953 da Eisenhower per sostituire al terrore del fungo di Hiroshima l'immagine positiva della produzione elettrica; certo l'esigenza per i Paesi del "club atomico" di ripianare in parte le colossali spese militari con la vendita del kWh o la "grandeur" - è il caso della Francia - di avere tutto atomico, l'elettricità e la propria bomba, senza dover dipendere dagli altri.

Ma è indubbio che il passaggio dal nucleare militare a quello civile avvenne sull'onda del dogma della sicurezza nucleare: comunque grave sia l'incidente alla macchina, neanche una particella radioattiva deve uscire dallo schermo più esterno di contenimento della radioattività.

Poi, l'incidente di Three Mile Island (TMI), 28 marzo 1979, con oltre  venti tonnellate di uranio fuoriuscite dal reattore, rilasci radioattivi incontrollati al di fuori della centrale e 140mila cittadini evacuati, volontariamente, dall'area delle 5 miglia.

Il 26 aprile 1986  si aggiunge il dramma di Chernobyl, il dogma si spezza, e la stessa IAEA inventa, con la scala INES, la distinzione tra catastrofe "locale" e catastrofe "globale". Sorge immediata la domanda: ma il nucleare si sarebbe mai affermato, con quell'impressionante trend di crescita che ricordavamo, se la sicurezza avesse proposto quella distinzione?

Per segnalare inoltre che alla scala INES non rinunciano davvero i reattori cosiddetti di terza generazione "avanzata". Gli innegabili miglioramenti ingegneristici che si sono avuti non sono infatti in grado di rispondere agli irrisolti problemi del nucleare, perché applicati alla fissione dell'Uranio, che, trasposta di peso dai laboratori e dalle esperienze per le armi alla produzione elettrica, non poteva certo avere tra le sue priorità sicurezza, protezione dalla contaminazione radioattiva e gestione delle scorie. Per questo il Nobel della Fisica, Carlo Rubbia, ha liquidato la terza generazione "avanzata" come un' "operazione di cosmesi"; e il proliferare di termini che vorrebbero accreditare un livello di sicurezza che non c'è fa venire in mente la massima di Goethe: "quando mancano i concetti nascono le parole"

Il 24 maggio la Tepco ha annunciato le fusioni avvenute, oltre che nel reattore 1, anche nei reattori 2 e 3 di Fukushima; sommate a quella di TMI fanno quattro, e ridicolizzano le stime di probabilità che l'IAEA avanzava nelle conferenze di Columbus (Ohio) e di Roma svolte nel 1985 e che contrassegnavano con 10-5 la fusione parziale del nocciolo, cioè una ogni centomila reattori funzionanti per anno. Anche limitando quelle stime ai soli reattori di concezione occidentale, esse includevano ovviamente i BWR di Fukushima già allora in funzione.

Oggi, dopo le ammissioni della Tepco, il dato di fatto, cioè la frequenza di incidenti di fusione è uno ogni quattromila reattori per anno, cioè venticinque volte più frequente rispetto a quelle stime! Questi numeri sono lo scheletro impietoso nell'armadio dei rapporti tra scienza, tecnologia, aspettative dell'uomo della strada, pressioni delle lobby e delle cricche, manipolazione della comunicazione, democrazia delle decisioni nella società tecnologica.

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