[15/09/2009] News

Intervista a Pachauri: «per restare entro i 2 gradi di gw, necessario il picco delle emissioni entro il 2015»

FIRENZE. Dal 2002, Rajendra Pachauri (nella foto) è a capo dell'International panel on climate change (Ipcc), un organo che unisce migliaia di scienziati provenienti da tutto il mondo. (L'ipcc) è stato creato nel 1998 dall'United nations environment programme (Unep) e dalla World meteorological organization (Wmo) con lo scopo di fornire ai governi una visione scientifica e chiara di cosa sta avvenendo al clima terrestre.

Nel 2007, l'Ipcc ha pubblicato il suo quarto Rapporto di valutazione, che ha scoperto che il mondo si sta inequivocabilmente riscaldando a causa delle attività umane (in realtà, il quarto Rapporto parla di «riscaldamento inequivocabile» - di un range da 0,56° a 0,92° dal 1906 al 2005 - mentre per la responsabilità antropica in esso è sostenuto che «la gran parte dei cambiamenti osservati nelle temperature medie dalla metà del ventesimo secolo è "molto probabilmente" - very likely, probabilità superiore al 90% - dovuta all'incremento osservato delle concentrazioni dei gas serra antropici», ndt). Nello stesso anno l'organizzazione, insieme all'ex-vicepresidente Usa Al Gore, è stata insignita del premio Nobel per la pace per il suo lavoro nell far crescere la consapevolezza sul ruolo antropico nel cambiamento climatico.

Pachauri, lei ha iniziato la sua carriera come ingegnere meccanico in India. In che modo si è ritrovato coinvolto nelle questioni inerenti al climate change?
«E' stato un cambiamento interessante. Mi hanno sempre interessato le tematiche legate all'energia, e poi ho lavorato per qualche tempo come economista dell'energia concentrandomi sulle questioni inerenti alla domanda energetica. Nel corso di ciò, mi sono interessato profondamente agli impatti ambientali legati alla "produzione" e all'uso di energia. E successivamente mi sono dedicato alla questione del cambiamento climatico, da quando - 20 anni fa - ho compreso che il Gw è qualcosa che è destinato ad avere il potenziale di scombussolare tutto ciò a cui siamo abituati».

Qual era la comune percezione del cambiamento climatico quando 20 anni fa lei per la prima volta intraprese il suo lavoro sul Gw? Come ha visto accrescersi il senso di urgenza intorno alla questione?
«Credo che ci sia stato un enorme quantità di sviluppi in questo campo poiché nel 1988, quando l'Ipcc fu creata e io divenni profondamente interessato agli studi sul climate change, non c'erano prove convincenti, e andavamo avanti sostanzialmente con ciò che la scienza ci diceva. Ma ora abbiamo le osservazioni (..): oltre alle valutazioni scientifiche, sappiamo sulla base di osservazioni - cioè sulla base di ciò che vediamo intorno a noi e che è basato sulle misurazioni registrate - che il climate change è una realtà. Ciò che è molto significativo, inoltre, è che il grosso dei cambiamenti avvenuti negli ultimi 50 anni in termini di cambiamenti climatici è il risultato delle azioni umane, quindi io credo che il livello di consapevolezza in questo campo si è evoluto così rapidamente che davvero non abbiamo ragioni per avere dubbi scientifici sull'impatto delle azioni umane sul clima».

Dopo che nel 2007 è stato pubblicato il Quarto rapporto Ipcc, il segretario generale delle Nazioni unite Ban-Ki-Moon sostenne che "la scienza è esplicita: il cambiamento climatico causato dall'uomo è una realtà dimostrata". Lo studio dimostrò anche che, se il mondo continua sulla strada attuale, le emissioni di gas serra cresceranno dal 25 al 90% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2000. Lei ritiene che i governi comprendano la necessità di un'azione immediata?
«Beh, (lo stanno comprendendo) sempre di più, ma sfortunatamente ci sono interessi consolidati e c'è un'inerzia nel pensiero di una parte della popolazione. Tutto ciò, temo, sta rallentando il processo col quale potremmo giungere ad un accordo globale. E' anche spiacevole che, nello stesso momento in cui i leader di molti paesi stanno rendendosi conto di cosa vada fatto, essi (però) si nascondono dietro i cosiddetti "interessi nazionali", che sono interessi ristretti e a breve termine ma che credo stiano entrando in gioco».

I leaders del cosiddetto gruppo dei G20 e altri paesi si sono incontrati a luglio in Italia, dove si sono accordati per l'obiettivo a lungo termine di ridurre le emissioni entro il 2050 e hanno sostenuto che l'incremento di temperatura media globale non dovrebbe superare i due gradi Celsius. Che cosa sarebbe dovuto emergere da questa assemblea dei leader mondiali?
«E' uno sviluppo positivo che (i leaders) abbiano posto i 2 gradi come obiettivo per la stabilizzazione del clima terrestre. Ma poi qualcuno avrebbe dovuto spiegar loro che per mantenersi in quel limite devono assicurare, come raccomandato dall'Ipcc, che il picco globale di emissioni avvenga entro il 2015. Anche nel caso che già lo sapessero, comunque hanno completamente perso di vista questo elemento. Ciò che dovevamo attenderci (dal meeting del G20) era che, per attenersi all'obiettivo dei due gradi, (le nazioni coinvolte) avrebbero dovuto ridurre sostanzialmente le loro emissioni entro il 2020 poiché, in assenza di ciò, l'obiettivo dei due gradi sembra semplicemente vacuo. Credo che questo sia stato il principale difetto dell'incontro».

Nel 2007, alla conferenza di Bali in Indonesia, le nazioni si accordarono per una "roadmap" delle durata di due anni, che prevedeva negoziati per aumentare gli sforzi per contrastare, mitigare e adattarsi al Global warming. Quei colloqui ora dovrebbero essere ripresi a dicembre a Copenhagen, con un nuovo accordo che è previsto avere effetti dopo che il primo periodo di applicazione del protocollo di Kyoto (..) finirà nel 2012. Qual è il migliore risultato possibile che ci si può attendere dalla conferenza di Copenhagen?
«Credo sia necessaria una serie di decisioni, e una potrebbe essere semplicemente quella di limitare le emissioni di gas serra. Ciò che era in discussione a Bali era un taglio dal 25 al 40% da parte dei paesi sviluppati. Ciò è stato accantonato più o meno all'ultimo secondo, e credo che dobbiamo tornare a quel livello di riduzione entro il 2020. Inoltre serve un impegno a fornire un adeguato supporto finanziario per le nazioni in via di sviluppo, sia per l'adattamento che per la mitigazione. E certamente è necessaria l'inclusione (di accordi per) l'accesso alla tecnologia».

Alcune nazioni ricche sono riluttanti sul tagliare le proprie emissioni mentre alcune più povere chiedono risorse e tecnologia per combattere il cambiamento climatico. Come convincerete sia i paesi poveri sia quelli ricchi che tagliare le emissioni è interesse di tutti?
«L'unico modo in cui convincere i paesi in via di sviluppo è il fare i giusti passi da parte dei paesi sviluppati. Sfortunatamente, il mondo sviluppato in realtà non ha fatto nulla. Il protocollo di Kyoto è stato osservato nelle sue violazioni, più che nell'aderenza ai limiti che erano stati posti. Penso che ci sia una perdita di credibilità da parte dei paesi sviluppati. E credo che ciò che davvero dobbiamo fare è prendere impegni seri e vedere se siamo pronti a fronteggiare queste sfide perchè, storicamente e complessivamente, il problema deriva da emissioni prodotte dal mondo sviluppato».

Quanto è importante la ventura conferenza di Copnhagen? Come definisce il peso delle decisioni che saranno prese?
«Va sottolineato il fatto che, se non giungiamo ad un accordo e il mondo continua a far crescere le emissioni serra, ci sarà un cambiamento climatico e ci saranno alcuni impatti pesanti che saranno subiti in molte parti del mondo. Questo non è chiaramente nell'interesse di nessuno, indipendentemente da dove viva. L'altro punto da sottolineare è che questo accordo assicurerà che, su scala globale, lavoreremo con spirito collaborativo e che grazie ad esso si avrà una reale riduzione e tagli severi grazie ai quali, secondo quanto dice chiaramente la roadmap successiva a Bali, dovremmo essere in grado di stabilizzare il clima terrestre. Perciò Copenhagen è un evento per cui la comunità globale ha lavorato molto, ed è uno step estremamente importante nel garantire che tutti siano coinvolti nel risolvere il problema».

Riguardo ad un altro aspetto del contrasto globale al Gw, che cosa fa lei nella sua vita quotidiana per diminuire la sua impronta "carbonica"? Cosa possono fare gli individui per attivarsi contro il climate change?
«Ho un settore (della mia vita quotidiana), in particolare, dove sfortunatamente sono responsabile di un'ampia impronta carbonica, e sono i viaggi. E' qualcosa su cui sfortunatamente io non posso fare altro, perchè devo diffondere il messaggio: devo andare da una parte all'altra del mondo e devo convincere le persone che questo è un problema serio che dobbiamo affrontare. Ma riguardo alla mia vita quotidiana, io sono molto attento a non essere "consumistico" nelle mie abitudini. Non sono un consumista, uno che semplicemente compra roba e butta roba: non lo faccio. Sono attento all'utilizzo dei trasporti nella mia vita di tutti i giorni (..). Soprattutto, sono diventato vegetariano nel corso degli anni perchè la filiera della carne è estremamente intensiva. Mi assicuro, uscendo da una stanza, di spengere la luce, e non lasciarla accesa a meno che non ne abbia bisogno: (insomma) cerco di fare il poco che posso».

L'intervista è stata realizzata dall'ufficio stampa dell'Onu ed è stata liberamente tradotta da Riccardo Mostardini

 

Torna all'archivio