[04/02/2011] News

Mubarak: «Dopo di me il caos», ma la rivoluzione araba sembra inarrestabile

LIVORNO. Il presidente egiziano Hosni Mubarak non è davvero l'inoffensivo zio di Ruby Rubacuori, ma nemmeno il fedele alleato dei democratici occidentali che teneva a bada, con l'inevitabile  pugno di ferro, i popoli arabi "bambini" e le orde islamiche che minacciavano i traffici petroliferi e di risorse verso l'Europa e l'America.

Come ogni dittatore asserragliato nei palazzi del potere, dopo aver scelto come vicepresidente il capo dei torturatori che ora dovrebbe trattare con le sua vittime, ieri ha ripetuto la frase che ogni despota fa risuonare come monito fin dai tempi della ghigliottina: «Dopo di me il diluvio», nella versione «Dopo di me il caos».

Come se nella piazza di Al-Tahrir i suoi scherani, gli aguzzini dei servizi segreti, i poliziotti in borghese e le milizie fasciste del suo partito non avessero già scatenato un diluvio di sangue e dolore e come se il caos non fosse la strategia di questo trentennale faraone per sfuggire alle sue colpe.

Nell'intervista al network americano Abc, Mubarak fa finta di bere l'amaro calice del potere eterno «Dopo 62 anni di funzione pubblica, sono stanco. Voglio partire. Non c'è  un altro presidente che vorrebbe altrettanto abbandonare il potere subito, ma che non lo può fare per paura che il Paese precipiti nel caos». Mentre scagliava le sue milizie inferocite contro i manifestanti, Mubarak diceva alla giornalista dell'Abc Christina Amanpour nel suo lussuoso palazzo presidenziale che il suo governo non è responsabile dei disordini e di non voler vedere «Gli egiziani battersi fra di loro». Come se gli oltre 300 morti e le migliaia di feriti di questi giorni fossero il frutto di un impazzimento popolare, invece che della disperazione per 30 anni di Stato di emergenza e della miseria di una popolazione giovane che non vede nessun futuro al proprio orizzonte.

Il messaggio agli ex amici occidentali che oggi lo abbandonano alla chitichella, inorriditi per il sangue che scorre ad Al-Tahrir, la piazza Tien An Men della rivoluzione araba, è sempre lo stesso: attenzione, sono i Fratelli Musulmani, che lui e Sadat hanno messo fuori legge, i responsabili delle violenze. Ma né lui né gli occidentali possono dire la verità: i Fratelli Musulmani, principale forza di opposizione in Egitto, sono stati fondati nel 1928 per avviare la rinascita islamica e la lotta non-violenta contro l'influenza occidentale, oggi sono molto più vicini al partito islamico al potere in Turchia che agli ayatollah iraniani e sono così forti perché il regime ha massacrato i partiti di sinistra e quelli laici democratici, stabilendo con gli islamisti un patto che lasciava alle moschee mano libera nel sociale e titillando l'odio anticristiano che è esploso contro i copti alla fine del 2010. 

Mubarak sa comunque che il suo tempo è scaduto e che la rivolta popolare ha fatto saltare anche la successione dinastica che aveva già messo suo figlio sul trono della falsa democrazia egiziana, per questo giura che non si ripresenterà per l'ennesima volta alle elezioni presidenziali di settembre, nell'intervista all'Abc ha avuto il coraggio di dire: «Non ho mai voluto ripresentarmi di nuovo, non ho mai voluto che mio figlio Gamal fosse presidente dopo di me». Mubarak però non intende lasciare l'Egitto e vuole morire in terra egiziana... più probabilmente sta prendendo tempo per preparare una via d'uscita più dignitosa di quella del suo amico tunisino Ben Ali e per portarsi dietro senza problemi il frutto di 30 anni di rapine a mano armata al popolo egiziano.

Il caos evocato da Mubarak non è rivolto a far paura agli egiziani ma agli Usa, che fino a ieri lo consideravano come il loro più fedele alleato nel mondo arabo, uno di quelli a cui meglio si attaglia la famosa frase della diplomazia Usa «E' un figlio di puttana... ma è il nostro figlio di puttana». Ad Obama che chiede una transizione rapida e che Mubarak ed il suo governo si facciano da parte senza spargere altro sangue, il regime del Cairo ricorda che le armi che fronteggiano la ribellione, che gli aerei che sorvolano la piazza ribelle per intimidirla, sono stati pagati anche con gli 1,5 miliardi di dollari di aiuti militari ed economici arrivati da Washington in Egitto negli ultimi anni. Mubarak ha detto ad Obama e agli europei: «Non comprendete la mentalità egiziana e quel che succederà se io mi dimetto. Il partito islamista dei Fratelli Musulmani prenderà il potere». Gli europei cercano anche di far dimenticare che il Rais egiziano era stato voluto da Nicolas Sarkozy come suo co-presidente dell'Unione per il Mediterraneo (e guardiano della sua munita cassaforte) e che francesi e russi, e tutta la bella compagnia della lobby nucleare internazionale, si stavano contendendo i favori del regime per costruire la prima centrale nucleare egiziana. 

La colpevole indifferenza e la complicità con i regimi "moderati" in cambio di petrolio e repressione, rischia di costare molto caro all'occidente: la rivolta araba potrebbe rappresentare per le democrazie quel che l'89 rappresentò per il comunismo sovietico, con una frana di tutti i regimi amici e dei fantocci della democrazia. Ieri a Sanaa, la capitale di quello Yemen che controlla l'imbocco del Mar Rosso e le rotte petrolifere verso Suez, più di 20.000 persone hanno partecipato alla "giornata della rabbia" per chiedere che finalmente se ne vada il presidente Ali Abdullah Saleh, uno dei "preziosi" alleati dell'occidente contro Al Qaeda. «il popolo vuole la libertà, il popolo vuole la fine della dittatura», cantavano i manifestanti yemeniti con parole imparate dall'Occidente che le ha tradite in casa loro.

Ora anche Saleh che qualche giorno fa voleva farsi nominare presidente a vita, ha congelato gli emendamenti alla Costituzione e si dichiara disposto ad abbandonare il potere... con calma. Ma il capo dell'opposizione, Mohammed Abdulmalik al-Mutawakil, ha risposto che: «Le cose sono fuori controllo, i manifestanti chiedono chiaramente la partenza di Saleh. I giovani vogliono cambiare l'avvenire dello Yemen».

Ma la frana più grossa e più preoccupante per l'Occidente potrebbe essere quella in Algeria, dove già gli smottamenti sono iniziati e dove sono immediatamente a rischio i nostri interessi petroliferi e gasieri. Il presidente Abdelaziz Bouteflika lo sa e ieri ha annunciato che molto presto sarà tolto lo Stato di emergenza in vigore dal 1993, naturalmente confermando che continuerà la lotta contro il terrorismo, omettendo di dire che il terrorismo è stato alimentato dal colpo di Stato con il quale si annullò la vittoria elettorale del Fronte islamico di salvezza. Con i giovani ancora in piazza a chiedere pane e democrazia, la ribellione berbera ancora più forte, la povertà che aumenta in un Paese teoricamente ricchissimo e con le casse piene di petrodollari, Bouteflika non ha trovato di meglio da dire che «Lo Stato di emergenza non ha in alcun momento ostacolato un'attività politica pluralista tra le più ricche, né contrastato lo svolgimento di intense campagne elettorali, secondo la stessa opinione degli stessi osservatori che le hanno seguite».

Il regime algerino gioca due parti in commedia: il giorno prima, respingendo la proposta di 21 deputati, il vice.premier Yazid Zerhouni aveva annunciate che lo Stato di emergenza non sarebbe stato tolto.

Il contagio della rivoluzione dei gelsomini tunisina ha fatto salire la febbre in tutto il mondo arabo e tutti aspettano di capire quanto il caos egiziano condizionerà la grande marcia  del 12 febbraio degli algerini per chiedere la fine dello Stato di emergenza ed una vera democrazia.

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