[07/09/2009] News

Miseria dello sviluppo di Piero Bevilacqua

«Ci sono fasi, nella storia umana, in cui le fedi, anche le più profonde e sentite, isteriliscono, si svuotano del loro antico significato. Solo i rituali e il linguaggio si conservano, ma sono un involucro senza vita»: per Piero Bevilacqua, ordinario di Storia contemporanea alla Sapienza, anche lo "sviluppo" comunemente inteso fa parte di queste professioni di fede e, pur essendo ancora vivi e vegeti i suoi rituali e il suo linguaggio, esso è da considerarsi «finito».

«Finito» perchè la spinta propulsiva iniziale che ha caratterizzato la vittoria sul buio della natura da parte dell'uomo nel suo cammino storico si è poi trasformata in una corsa verso il nulla, in un concitato soddisfacimento di bisogni apparenti (o, peggio, indotti) il cui appagamento conduce solo al sorgere di nuovi bisogni, all'interno di un circolo vizioso che «somiglia ormai troppo da vicino alla ruota in cui corre inutilmente il criceto». «Finito» perchè la rincorsa alla crescita economica, nel mondo cosiddetto avanzato, si è definitivamente separata dalla ricerca del benessere, e perchè, fin dall'inizio, «l'intero edificio dell'economia dello sviluppo è stato costruito su una doppia finzione: la pretesa eternità dei fenomeni sociali (e) la supposta infinità della natura».

Lo sviluppo è «finito» perchè, in definitiva, «tutto è stato pensato fuori dal tempo e dallo spazio», quindi ormai l'uomo di oggi è diventato «predone del tempo degli uomini e delle donne che verranno dopo di noi» e soprattutto perchè troppo tardi è stato compreso che alla fine della corsa dello sviluppo per com'è inteso oggi non vi è altro che l'esaurimento irreversibile delle risorse sociali e ambientali: «nel meccanismo capitalistico - scrive infatti l'autore - la riproduzione materiale è stata assicurata solo a due dei suoi componenti: il capitale e il lavoro (..). Ma c'è un terzo attore, muto», che partecipa come gli altri due al processo di produzione della ricchezza ma che, diversamente dagli altri due, attua «un lavoro che non viene riconosciuto né pagato»: ed è la Natura, che è stata ridotta «con una colossale finzione, ad un pozzo senza fondo di stock di materie prime».

Da quanto sopra si può capire come, diversamente da altri autori che separano i due termini, "sviluppo" e "crescita economica" sono per Bevilacqua da considerarsi sinonimi, ed è appunto la crescita economica ( lo «sviluppo estremo», come è chiamato) che l'autore considera finita nel suo portare benessere e comunque destinata ad esaurirsi in valore assoluto, anche perchè «è perlomeno paradossale che, nell'epoca della rapida obsolescenza di tutte le cose, si debba immaginare come eterna la possibilità della crescita economica e dei suoi vantaggi». Certo, restano in piedi i totem di questa crescita, e resta vegeta quella retorica che la accompagna e che ne costituisce carburante fondamentale: ma sono, secondo l'autore, solo simulacri ormai vuoti, in attesa di essere cancellati dal tempo e dalla nuova consapevolezza che sta diffondendosi.

E da quanto scritto si può intuire anche come, leggendo il libro di Bevilacqua, si possano riscontrare con grande agilità quasi tutti i temi che quotidianamente trattiamo su greenreport, e che possono essere riassunti nell'analisi dei mille fattori di degrado ambientale e sociale, e in generale di insostenibilità, che caratterizzano la natura stessa del sistema socio-produttivo attuale e che quindi evidenziano la necessità di una riconversione ecologica dell'intera economia.

Certo, l'impostazione è analoga, ma non pedissequa: per Bevilacqua è fondamentale superare l'illusione dell' «economicismo», oltre a quella di un'economia che, appunto, si illude di essere slegata dal capitale naturale di cui essa si nutre, e non necessariamente le due cose coincidono. Bevilacqua infatti ha l'abilità di porre nello stesso piatto il degrado delle piazze cittadine e la dichiarazione di Bush padre sulla «non-negazionabilità dell'american way of life» (Rio de Janeiro, 1992), le privatizzazioni e i temi dell'energia, il cambiamento climatico e la democrazia partecipativa, la questione del lavoro, la politica marketing e la consunzione del capitale naturale: tutte le questioni affrontate, cioè, vengono trattate con una logica olistica, onnicomprensiva, e tutte vengono fatte risalire alla frattura che si è creata tra produzione di ricchezza, lavoro umano e "lavoro naturale", cioè svolto dagli ecosistemi.

Ma in certe parti il ragionamento appare fin troppo fluido, quasi che ad una "ragione che tale non è più" si voglia sostituire non una "vera ragione", ma una nuova religione, anzi una «nuova fede laica» - come la definisce l'autore - finalizzata alla salvezza della casa comune» e che «può rifondare le ragioni dello stare insieme».

Insomma, il punto è che sicuramente esistono enormi ambiti comuni tra la ricerca di una "nuova società" nel suo insieme e quella di una società caratterizzata da uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, ma che non sempre questi due obiettivi possono coincidere: per esempio, la critica all'economicismo dilagante è questione più legata allo sviluppo di un "uomo nuovo" che alla ricerca della sostenibilità, che anzi (almeno, questa è la nostra impostazione prevalente), non necessariamente passa per la "fine dell'economicismo" ma che anzi potrebbe puntare ad un economicismo "nuovo", che si accompagni ad una economia nuova che, senza rinunciare al suo ruolo strutturale nella società, ricominci però a dare un costo al carburante che adopera e a preoccuparsi non solo di usarlo ma anche di garantirne la replicabilità.

In poche parole possiamo, una volta reso merito alla profonda capacità di analisi, alla cultura enciclopedica per quanto attiene alla letteratura dello sviluppo (una cultura che nel testo viene messa a disposizione del lettore, fornendo così vari spunti di approfondimento, e non gratuitamente esibita) e anche alla spiccata capacità espressiva dell'autore, criticare un eccesso di confusione che esso sembra fare tra le prospettive di un "mondo nuovo" e di un "uomo nuovo" in generale e quelle - sicuramente altrettanto onnicomprensive in prospettiva, ma la cui trattazione necessita di una maggiore selettività e specificità - legate alla riconversione ecologica del sistema socio-economico.

Il motivo di ciò, probabilmente, è anche legato al fatto che il libro (pur uscito nel 2008) è stato scritto quando ancora Bush figlio sedeva sul soglio presidenziale e Fausto Bertinotti guidava ancora Rifondazione comunista, quindi solo qualche anno fa ma, dal punto di vista dell'evoluzione che hanno avuto il dibattito e gli eventi nel frattempo, secoli addietro. Inoltre, appare che l'autore non voglia rivolgere le sue argomentazioni alla società tutta, ma che esso prendo come obiettivo principale i partiti della sinistra, e in particolare Rc.

Partiti che però, come sappiamo, sono - così come i Verdi italiani - attualmente fuori sia dal parlamento nazionale che da quello europeo: elemento che, anche se non pregiudica il futuro di questi raggruppamenti (peraltro, ben vivi a livello di politiche regionali e locali), ci porta necessariamente a sottolineare il ruolo che in questa fase deve avere il Partito democratico. E' il Pd, infatti, più che i partiti della sinistra radicale, che in questo momento e in questa fase di bipolarizzazione della politica può (e deve) farsi carico su scala nazionale delle tematiche inerenti alla sostenibilità e alla riconversione ecologica dell'economia: e il "bello" è che un programma basato su una visione strategica della società, proprio quello che è mancato nel centro-sinistra italiano in questi anni, potrebbe - se recuperato e reso centrale nella piattaforma propagandistica e politica - costituire un vero fattore di rilancio per il centrosinistra, anzi forse l'unico davanti allo strapotere delle insulse (ma attraenti in termini di consenso) tematiche legate alla "sicurezza" e all'ultraliberismo economico dilagante, fattore che Bevilacqua vede tra l'altro (e in certi punti, va ripetuto, forse forzando il ragionamento) come la vera e unica nemesi di uno sviluppo armonico e sostenibile della società.

Naturalmente, non va confusa la volontà di evidenziare le divergenze tra le varie tipologie di pensiero con quella di negare la comunanza dell'obiettivo fondamentale, e cioè quello di una società in cui non solo alcuni aspetti, ma proprio i paradigmi centrali, siano ribaltati rispetto a quelli attuali. Inoltre è da apprezzare la strenua volontà, da parte dell'autore, di mantenersi legato ad un principio di realtà, con la conseguente critica che egli fa ai teorici della decrescita, che «non provano nemmeno» a «tradurre in pratica politica» le loro analisi teoriche, e in generale a tutti coloro che, in particolare «nella sinistra radicale e popolare», tendono a «mantenere un atteggiamento di purezza e intransigenza testimoniale delle proprie posizioni», atteggiamento che non solo non ha utilità politica pratica, ma che anzi vanifica i passi in avanti che altri gruppi di opinione cercano di attuare nel mondo reale e non in quello della pura teoria.

Per recensire il libro di Bevilacqua, a causa della densità di contenuti e di stimoli presenti, non sarebbe sufficiente un intero libro dedicato. Per brevità, riportiamo comunque le proposte che egli solleva nella seconda parte del suo testo: da una "Ipcc dell'energia" (che «dovrebbe riunire ricercatori di tutti i paesi allo scopo di lavorare alla creazione di fonti energetiche alternative» e che «darebbe un'impronta cooperativa e solidale su scala mondiale alla ricerca», oggi sommersa da politiche ispirate alla competitività che stanno uccidendo la ricerca "pura"), ad una "Kyoto del lavoro" che punti alla fissazione di uno «standard delle condizioni di lavoro» su scala planetaria, e che quindi sia precursore di accordi globali per una riduzione dell'orario di lavoro (l'autore pone come prospettiva le «4 ore al giorno, 20 a settimana»), per un suo miglioramento nel senso della cooperazione aziendale e per superare i problemi occupazionali connessi all'esplosione delle nuove tecnologie (se esse non sono gestite tenendo come orizzonte la tutela dell'occupazione), e alle prospettive di crescita culturale offerte dal «ridare tempo» alle persone per pensare, approfondire, intuire i modi e gli strumenti di progresso.

E in questo senso è interessante il ragionamento che l'autore fa riguardo all'India, dove il passaggio in corso dall'età agricola-industriale a quella "telematica" rischia, senza una preliminare fase "post-industriale" come è avvenuto nei paesi sviluppati, di essere diretto, non mediato, e quindi di portare a drastici cali occupazionali: è questo il motivo per cui, secondo l'autore, cade uno dei presupposti dello sviluppo come lo intendiamo oggi, e cioè la sua replicabilità in contesti diversi da quello delle società occidentali.

E queste sono solo alcune delle proposte e degli ambiti di analisi contenuti nel libro (anzi, in un certo senso, nel "manifesto") di Bevilacqua per la società nel suo insieme. Per la politica in sé, invece, è auspicata una nuova «prospettiva socialista (..) che, assieme ad un intelligente prelievo fiscale, passi attraverso una ridefinizione dei nessi tra pubblico e privato» e che «dovrà fondarsi su una inedita sapienza degli equilibri e della fragilità del mondo vivente»: questo poiché «sinora nessuna scienza della natura ha orientato l'uso globale e senza regole delle risorse», ma «ha trionfato la pura tecnica del saccheggio».

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